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IV.
La caverna della Valle del Brenta.
Quattro giorni dopo gli avvenimenti narrati, una grossa scialuppa montata da quattro uomini e carica di casse, solcava lentamente le tranquille acque della valle del Brenta, costeggiando l’isolotto di Aleghero.
Quella valle è veramente una palude, interrotta da qualche isolotto e da un gran numero di banchi di fango, coperti, a seconda della bassa o alta marea, dalle acque salmastre del mare.
Non vi sono che rarissimi casolari, situati ad una grande distanza l’uno dall’altro, regnando di sovente le febbri durante la stagione estiva, motivo per cui tiene lontani gli abitanti.
È una laguna tristissima, sparsa di boschetti di canne, dove nidificano in gran numero gli uccelli palustri, arzavole, anitre selvatiche e beccaccini, frequentata a rari intervalli dai cacciatori della vicina Chioggia, ma affatto deserta durante i mesi caldi.
La barca, che filava silenziosamente fra quelle acque morte, era montata dal dottor Bandi, da padron Vincenzo, da Michele e da un suo camerata, il bel giovanotto bruno.
I due primi, seduti sulle casse, stavano osservando attentamente il disegno del capitano Gottardi, mentre i due marinai remavano lentamente, essendo impacciati dal carico eccessivo, il quale impediva loro quasi di muovere le braccia.
— L’imboccatura del canale deve trovarsi laggiù — diceva il dottore, indicando una piccola insenatura che s’addentrava nella terra ferma. — Guardate, Vincenzo: il disegno indica esattamente quel luogo.
— È vero — rispose il lupo di mare. — Il tracciato corrisponde perfettamente alla configurazione di quella riva.
— Sarà là che noi faremo le prime ricerche.
— Sperate di trovare la galleria?
— Ne sono certo, Vincenzo.
— Vorrei sapere però come faremo a entrare.
— Qualche passaggio deve esistere. Il documento ne indica uno.
— Ma...
— Parla, Vincenzo.
— Il canale è navigabile, è vero?
— Così almeno dice il documento.
— Come faremo a percorrerlo?
— Con un battello.