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Nessuno però osò ripararsi nelle cabine per riposare. Si accomodarono alla meglio sul ponte, su dei materassi che avevano presi dai lettucci del quadro, sotto la guardia del malese prima e del siciliano poi.

Quantunque il vascello si fosse solidamente arenato ed appoggiato alla grande rupe, poteva spaccarsi sotto i violenti ed incessanti assalti della risacca.

All’alba uno splendido sole s’alzava sull’orizzonte, facendo scintillare il mare come fosse cosparso di pagliuzze d’oro. Le onde si erano spianate ed il vento furioso dell’est si era tramutato in una fresca brezza che soffiava dall’ovest, carica dei profumi delle grandi foreste del Borneo.

– In piedi!... – tuonò O’Paddy, che aveva fatto l’ultimo quarto di guardia. – Ecco una giornata propizia per approdare!

– C’imbarchiamo? – chiese Held.

– Sì, signore.

– Su di una zattera?

– Sul gran canotto.

– È stato accomodato?

– Aier-Raja non ha perduto il suo tempo durante il quarto di guardia, ed ha rimessa la tavola che mancava.

– Non cederà? La risacca è ancora un po’ forte.

– Il mio malese è un abile carpentiere, ve lo dissi già.

– Vado a cercare delle armi e delle munizioni – disse il marinaio. – So dove trovarle.

– E dei viveri, se ne restano ancora – disse O’Paddy.

Il siciliano discese nel quadro e poco dopo ritornava accompagnato dal malese. Recavano cinque carabine, alcune asce e provviste di polvere e di palle, nonchè parecchie scatole di conserve alimentari, del cioccolatto e dieci o dodici chilogrammi di biscotti.

– Avremo da vivere una settimana – disse il soldato. – Poi penserà la foresta a provvederci.

– Al gran canotto!... – gridò O’Paddy.

Stavano per recarsi a poppa onde calare l’imbarcazione che era sospesa alle grue, quando l’irlandese s’arrestò bruscamente, emettendo una sorda esclamazione.

– Fulmini di Giove!... – mormorò. – Cosa vogliono quei cu-