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54 | capitolo settimo |
Rokoff ebbe appena il tempo di mormorare un «grazie».
Si precipitò verso la scala, scavalcò un parapetto e cadde fra le braccia di un altro uomo.
Udì confusamente un fischio acuto che pareva mandato da qualche macchina a vapore, poi dei colpi di fucile, delle urla lontane, poi vide due immense ali sbattere vivamente e rimpicciolirsi rapidamente il palco, la piazza e la folla... poi più nulla...
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Quando Rokoff tornò in sè, si trovò sdraiato su un soffice materasso, a fianco di Fedoro, sotto un tendalino che lo riparava dai raggi del sole.
Un profondo silenzio regnava attorno a lui: le grida della folla e i colpi di fucile erano cessati. Sentiva solamente delle leggiere scosse e una forte corrente d’aria che gli procurava un dolce benessere.
Per un momento credette davvero di essere stato decapitato dal gigantesco carnefice e di viaggiare in un altro mondo. Se era vero, la morte, dopo tutto, non doveva essere spiacevole, nè così paurosa come si credeva. Si portò le mani alla testa, con un moto rapido... e... con sua sorpresa la trovò a posto.
— Che mi abbiano invece fucilato? — si chiese.
S’alzò di scatto guardandosi le vesti e non vide alcuna macchia di sangue. Nemmeno Fedoro aveva la casacca lorda.
— Che io sogni? — si domandò.
Un lungo sibilo, che pareva uscisse da qualche macchina, lo fece sobbalzare.
Un’ombra umana si delineava dinanzi a lui. La guardò con paura.
Non era un’ombra, era un uomo, un bell’uomo anzi, di statura alta e di forme eleganti, colla pelle leggermente abbronzata, con due occhi nerissimi e pieni di splendore, con una barba pure nera pettinata con gran cura.
Era vestito tutto di bianco, con una larga fascia rossa che gli stringeva i fianchi, e calzava alti stivali di pelle nera.
Anche quell’uomo lo guardava, ma sorridendo.
— Dove sono io? — chiese Rokoff.
— A bordo del mio Sparviero, — rispose lo sconosciuto nell’egual lingua. — Siete sorpreso, è vero? Ciò non mi stupisce. —
Poi, con una certa meraviglia, chiese: