Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
46 | capitolo sesto |
delle nostre disgrazie. Deve aver protetto i membri della Campana d’argento, messo il pugnale nella nostra camera e poi saccheggiata la cassa del suo padrone.
— Noi lo strozzeremo, no, lo martirizzeremo in modo che muoia a poco a poco. —
Alcuni carcerieri erano entrati portando delle scodelle di riso, del formaggio fatto con fagioli, piselli mescolati a farina, gesso e succhi di vari semi, che ha il sapore dello stucco e che pure è assai pregiato in Cina, dei pien-hoa o radici eduli, delle arachidi e delle kau-ban, ossia olive salate e poi seccate.
Passarono i tondi entro la gabbia occupata dai due europei, poi si ritirarono precipitosamente per paura di venire afferrati dalle poderose mani dell’ufficiale dei cosacchi.
Altri intanto avevano portato ai miseri, che morivano di fame nelle altre gabbie, delle terrine ricolme d’una certa poltiglia nera, che esalava un odore nauseabondo, formata da chissà quali generi alimentari.
Fedoro e Rokoff, che dalla sera innanzi non avevano assaggiato alcun cibo, quantunque potessero appena muoversi, vuotarono i tondi, scartando però le arachidi, buone solamente pei palati dei cinesi, essendo rancidissime.
Terminato il pasto, il magistrato, che era ritornato, si sedette presso la gabbia offrendo loro, con molta gentilezza, alcune tazze di the recate da un carceriere e dei sigari europei; poi impegnò con loro una divertente conversazione.
Non era più il burbero magistrato che li aveva trattati da assassini e perfino minacciati di farli fucilare. Era un vero cinese delle caste alte, cerimonioso fino all’eccesso, amabilissimo, che discuteva con competenza anche sulle cose europee. S’intrattenne con loro fino a quando le lanterne furono accese, poi si accomiatò augurando la buona notte e promettendo che all’indomani sarebbero stati rimessi in libertà.
— Fedoro, — disse Rokoff, quando furono soli. — Capisci qualche cosa tu di questi cinesi? Io no, te lo assicuro. Poco fa pareva che volessero sottoporci alla tortura; ora ci colmano di cortesie.
— Senza liberarci però, — rispose il russo, che pareva un po’ preoccupato.
— Si direbbe che tu dubiti della promessa fattaci.
— No, ma... vorrei essere già lontano da qui.
— Ci andremo domani e anche in fretta. Ci recheremo