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318 capitolo trentaquattresimo


— Fuoco! Fate fuoco! — gridò il capitano.

Rokoff aveva puntato la carabina, sparando precipitosamente, quasi senza mirare. Non ebbe il tempo di constatare gli effetti della scarica, perchè si sentì afferrare strettamente da due zampacce e scuotere a destra e a manca, mentre si sentiva soffiare in viso un alito caldo e fetente.

Credeva di sentirsi già dilaniare le carni o scaraventare nel vuoto da un’altezza di cinquanta piedi, quando una seconda detonazione rimbombò. Era stata sparata così da vicino, che per un momento si credette acciecato dalla polvere.

Il capitano, comprendendo che il cosacco stava per venire oppresso e che non doveva aver colpito la belva, tenendosi con una mano, coll’altra aveva scaricato la carabina. Il labiato aveva mandato un urlo di dolore, poi aveva lasciato il cosacco, arrampicandosi su pel tronco e rifugiandosi sui rami.

— Colpito! — gridò Rokoff, allungando le braccia verso il capitano, il quale si era lasciato sfuggire di mano la carabina, pel contraccolpo della grossa carica di polvere che per poco non l’aveva gettato giù.

— Ma è ancora vivo, — rispose il comandante. — L’avete colpito, voi?

— Lo credo.

— E io l’ho solamente ferito.

— Forse gravemente. Guardate, mi gocciola addosso del sangue.

— Morisse almeno dissanguato! — esclamò il capitano, mettendosi a cavalcioni del ramo. — Sapete che vi credevo già perduto?

— Ancora un momento e venivo gettato giù.

— Vi ha piantato le unghie nelle spalle?

— Non ne ha avuto il tempo; ha lacerato solamente la mia casacca.

— E la mia carabina è caduta!

— Ne abbiamo ancora una, — disse Rokoff. — Io non l’ho abbandonata e ci servirà per finire quel dannato orso.

— E perdereste gli zamponi.

— Perchè, capitano?

— I bighana ve li mangerebbero.

— Ci tengo a conservarli.

— Allora lasciate in pace il labiato; lo finiremo più tardi.