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28 | capitolo terzo |
— Ti dico che eravamo qui. Chi può averci trasportati in quella stanza?
— Ne siete certo, signore? — chiese il maggiordomo con accento alquanto incredulo.
— Sì, noi eravamo qui.
— Se la porta era chiusa!
— Eppure non abbiamo sognato. Il tuo padrone aveva paura di venire assassinato e ci aveva pregati di tenergli compagnia.
— E vi siete svegliati nella vostra stanza? Oh!
— Ci hai ben veduti uscire.
— È vero. — disse il cinese, il cui stupore non aveva più limiti.
Poi, come fosse stato colpito da un improvviso pensiero, chiese:
— Voi avete veduto il mio padrone toccare la molla segreta che doveva aprire la porta?
— Eravamo assieme a lui, — rispose Fedoro.
Il viso del maggiordomo si fece oscuro ed i suoi occhi si fissarono sul russo.
— Ah, — disse poi.
— Che cos’hai? — chiese Fedoro con inquietudine.
— Dico che se conoscevate il segreto della molla, potevate anche uscire e tornare nella vostra stanza.
— Tu oseresti sospettare di noi?
— Non è a me che tocca indagare su questo affare misterioso, — disse il cinese con voce lenta, — bensì ai magistrati della giustizia. Ecco la polizia: sbrigatevela come meglio potete. —
CAPITOLO IV.
Un’accusa infame.
Un cinese piuttosto attempato, tozzo, dall’aria arcigna, con una lunga coda che gli batteva le calcagna e un paio d’occhiali giganteschi che gli coprivano buona parte del viso, era allora entrato nella stanza, seguito da quattro individui d’aspetto punto rassicurante e armati di scimitarre.
Vedendo i due europei, i quali erano rimasti come fulminati dalle ultime parole del maggiordomo, mosse verso di loro, salutandoli con affettata cortesia.
— Chi siete voi? — chiese Fedoro, che cominciava a diventare assai inquieto per la brutta piega che prendevano le cose.