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218 capitolo ventiseiesimo

CAPITOLO XXVI.

L’assalto dei montanari.

L’uragano che da tante ore continuava ad imperversare sugli immensi altipiani, non accennava ancora a cessare, anzi pareva che ricominciasse a riprendere lena.

Si udiva in alto, verso la cima delle enormi pareti che formavano la vallata o meglio l’abisso, a ruggire il vento e di quando in quando si udivano pure dei fragori strani e terribili, prodotti probabilmente dal rotolare di enormi valanghe.

La neve, spinta dalle raffiche, cadeva abbondantissima nel vallone, mentre la nebbia passava e ripassava ad ondate ed a cortine sempre più fitte, intercettando completamente la luce.

— Pare che sia calata la notte, eppur non devono essere che le tre o le quattro del pomeriggio, — disse Rokoff, il quale aveva già fatto il suo primo giro intorno allo Sparviero. — Come fanno a vivere in quest’orribile abisso questi Tibetani? Bel paese in fede mia! Lo sdegnerebbero perfino i lupi. Apriamo gli occhi; non si sa mai quello che può succedere. Se il capitano non è tranquillo, deve avere i suoi motivi. —

Non avendo veduto nessuno presso lo Sparviero, allargò il suo giro, spingendosi verso le capanne dei Tibetani, le quali erano allineate su due file.

Anche là nulla di sospetto. Tutte le abitazioni erano ermeticamente chiuse e Rokoff non vedeva uscire che del fumo il quale, invece d’inalzarsi, si manteneva presso il suolo, come se la nebbia lo soffocasse.

— Non si occupano più di noi, — disse. — Preferiscono scaldarsi intorno ai loro camini primitivi e bruciare argol. Buon segno, almeno per ora. —

Sul ponte del fuso, il fuoco del fornello brillava, lanciando fra la caligine qualche scintilla e si udivano i martelli rimbombare sonoramente.

I suoi compagni avevano cominciato a lavorare onde riparare quella maledetta ala, che per la seconda volta aveva messo in grave pericolo gli aeronauti.

Rokoff, fatto un terzo giro, si sedette su un mucchio di neve, avvolgendosi nel gabbano, tirandosi il cappuccio sugli occhi e mettendosi il fucile fra le ginocchia.