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212 capitolo venticinquesimo

seguito poco dopo da uno scricchiolare di tavole o di rami, accompagnato da grida acute.

— Mille milioni di fulmini! — esclamò Rokoff. — Schiacciamo della gente noi?

— Mi pare che siamo caduti su un’abitazione, — disse il capitano.

Urla di terrore risuonavano fra la nebbia, mentre il fuso s’inclinava verso poppa, trattenuto da un impedimento che non gli permetteva di adagiarsi orizzontalmente.

A un tratto però l’ostacolo cedette sotto il peso e si sfasciò con mille scricchiolii.

L’abitazione doveva essersi spezzata, perchè lo Sparviero riprese il suo appiombo, rimanendo immobile.

— Le armi! Le armi! — gridò il capitano.

Attraverso la nebbia aveva scorto delle ombre umane agitarsi.

Il macchinista e il suo muto compagno avevano portato in coperta degli Snider e dei Remington.

Il capitano era balzato a terra assieme a Fedoro e a Rokoff, gridando in lingua mongola.

— Pace! Pace! Non temete! Siamo amici! —

Degli uomini coperti di pellicce che li facevano rassomigliare ad orsi, si erano accostati.

— Chi siete! — chiese una voce imperiosa.

— Amici, — rispose il capitano.

— Da dove siete caduti? Avete schiacciato la mia capanna.

— Siamo pronti a indennizzarvi dei danni che vi abbiamo recato.

— Siete mongoli?

— Europei che non vi faranno alcun male.

— Che cosa sono questi europei?

— Degli uomini bianchi, — rispose il capitano. — Chi comanda qui? Conduceteci dal vostro capo.

Quindici o venti uomini si erano radunati attorno al capitano e ai suoi compagni, mentre altri s’aggiravano presso lo Sparviero, cercando di distinguere che cosa fosse quella massa enorme che cadeva dall’alto schiacciando le case.

Un uomo, grosso come una botte, che aveva un enorme berretto di pelo e una casacca di grosso feltro, si era avvicinato al capitano, dicendo:

— Se cercate il capo del villaggio, sono io. Che cosa