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prigionieri nell’abisso | 187 |
CAPITOLO XXIII.
Prigionieri nell’abisso.
Il cosacco che aveva la vista migliore di tutti, si era subito accorto che le loro disgrazie non erano ancora finite, malgrado avessero tentato quel pericolosissimo salto e avessero avuto la fortuna di salvare le gambe.
Quell’abisso, al pari del piccolo altipiano, non aveva che una sola uscita, quella aperta dal torrente e anche questa, disgraziatamente, assolutamente impraticabile.
Era una enorme conca, colle pareti perfettamente lisce, tagliate a picco, larga cento metri e lunga quasi altrettanto, limitata da una spaccatura che metteva in un secondo burrone ben più profondo.
Da una parte il torrente si precipitava da una rupe alta quanto l’altipiano e dall’altra usciva in cascata, rovesciandosi con fragore immenso nel burrone sottostante.
I tre cacciatori sfuggiti alle corna della mandria inferocita, mercè quell’arditissimo salto, non avevano migliorata la loro condizione e si trovavano ora imprigionati fra quelle pareti che non permettevano nessuna scalata.
— Che cosa ne dite? — chiese Rokoff al capitano.
— Che siamo caduti dalla padella nelle brace, — rispose questi. — Tuttavia sono più contento di trovarmi qui che sull’altipiano, cogli jacks di fronte perchè non avrei il coraggio di ritentare il salto. Senza la vostra pazza temerità, mi sarei lasciato piuttosto sventrare dalle corna di quegli inferociti animali.
— E avreste fatto male a non seguire il mio esempio, — rispose Rokoff ridendo. — A quest’ora non sareste altro che una poltiglia di carne e di sangue, mentre invece, con quel capitombolo, avete salvato la pelle.
— Non ci voleva che un cosacco per decidermi, signor Rokoff.
— Anch’io senza di te non avrei mai saltato, — disse Fedoro. — Che uomini sono quelli delle steppe!
— Lasciamo i salti e anche le steppe e pensiamo a trarci da questa situazione che non è molto allegra, — disse Rokoff.
— Se pensassimo invece ad asciugarci un po’? — chiese Fedoro, che batteva i denti. — Vedo degli sterpi qui.