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la caccia agli «jacks» 179

volti e che screpolava le labbra, soffiava sempre dagli Allyn-tag, sollevando le sabbie del deserto in fitte cortine.

— Con una buona camminata ci scalderemo, — disse Rokoff mettendosi in tasca alcuni biscotti e qualche scatola di carne conservata.

— E gli jacks vi faranno anche correre, — disse il capitano. — Sono animali assai diffidenti, che non si lasciano avvicinare facilmente. Badate di non commettere imprudenze e di non sparare se non a colpo sicuro, perchè, quando sono feriti, si rivoltano furiosamente. —

La catena di roccie non era lontana che un quarto di miglio. Era formata da ammassi di rupi ripidissime, coperte da una magra vegetazione, composta per lo più di graminacee e di licheni, divise da minuscole vallette che salivano tortuosamente verso le cime.

Il capitano avendo scoperto un burrone che pareva meno aspro degli altri, fiancheggiato da qualche gruppetto di betulle nane, guidò i compagni attraverso quel passo che doveva condurre sui piccoli altipiani superiori.

— Che si trovino lassù gli jacks? — chiese Fedoro.

— Per lo più si tengono alti, — rispose il capitano. — Mentre i nostri bufali preferiscono le bassure e soprattutto i terreni paludosi, i loro confratelli della Mongolìa di rado abbandonano le cime delle montagne.

— Sono indomabili?

— Non del tutto; i Tibetani li adoperano per trasportare le tende e le merci, quantunque siano sempre un po’ selvaggi.

— Non ne vedo però alcuno in questo burrone, — osservò Rokoff, che era impaziente di misurarsi con quella grossa selvaggina.

— Ne troveremo, non dubitate, — rispose il capitano. — Ho già scorto le loro tracce e anche molto argol.

— Che cos’è questo argol?

— Sterco disseccato degli jacks che i Tibetani raccolgono preziosamente.

— Per cosa farne?

— Per bruciarlo, non avendo legname sugli altipiani.

— Che minestre profumate devono riuscire! — esclamò Rokoff.

— Non sono tanto sottili.

— Sicchè sulle loro montagne manca perfino l’erba.

— Non vi sono altro che sassi.