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le ambizioni d’un calmucco 161


— Aprirà poi gli occhi? — chiese il cosacco. — Sarà ancora ubbriaco.

— Gli somministreremo un po’ d’ammoniaca in un bicchier d’acqua, — disse il capitano. — Se dovessimo sbarcarlo in questo stato, i Calmucchi sarebbero capaci di prendersela con noi. —

Il macchinista, il quale aveva ceduto il timone allo sconosciuto, che si era sempre tenuto da parte senza mai parlare, portò il bicchiere e forzò il monaco a berlo.

Il povero diavolo lo mandò giù facendo delle smorfie e sternutando sonoramente parecchie volte.

— Questo non è kumis! — esclamò. — Briganti di servi! Che cosa avete dato al vostro sacerdote? —

Probabilmente credeva di trovarsi ancora sotto la sua tenda. Accortosi dell’errore e vedendo sopra di sè agitarsi le immense ali dello Sparviero, impallidì e si portò le mani alla fronte.

— Dove sono? — si chiese, con accento smarrito.

— Sopra Turfan, — rispose il capitano, ridendo. — Su, in piedi, se volete diventare ghetzull o hellung.

— Turfan! — esclamò il calmucco, che penava molto a raccapezzarsi. D’un tratto mandò un grido: — I figli della luna!

— Pare che l’ubbriachezza gli sia finalmente passata, — disse Rokoff.

— E che sia molto spaventato, — aggiunse Fedoro. — Non c’è più alcool nel suo corpo che gli dia del coraggio.

— Gliene faremo ingollare dell’altro. —

Il monaco, aiutato dal capitano, si era alzato aggrappandosi alla balaustrata. Appena ebbe dato uno sguardo all’abisso che gli si apriva sotto i piedi, retrocesse vivamente, agitando le braccia come un pazzo.

— Ho paura! — esclamò. — Non gettatemi giù! Sono un povero mandiki.

— Che cosa vi salta pel capo, ora? — chiese il capitano. — Volevate andare a Turfan coi figli della luna; noi vi abbiamo accontentato e stiamo per scendere.

— E non ci ammazzeremo tutti? — chiese il monaco, che sudava freddo.

— Giungerete in ottimo stato, ve lo prometto.

— E questa bestia non mangerà nessuno?

— Non le piacciono gli uomini, specialmente quelli della vostra razza. —