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156 | capitolo ventesimo |
Indossava una lunga tonaca di feltro giallo, molto lurida, cinta da un rosario di pallottoline d’osso ed aveva la testa nuda, con una sola ciocca di capelli in mezzo al cranio che formava un ciuffo untuoso.
Gli altri erano tipi di briganti, coi lineamenti angolosi, la pelle bruno-giallastra, il viso piatto e molto largo, gli occhi un po’ obliqui e con barbe incolte.
Avevano lunghe casacche di stoffa grossolana con maniche ampie, calzoni larghissimi, fasce ripiene di pistoloni a pietra e di coltellacci, e a terra si vedevano certe specie di tromboni colle canne che s’allargano in forma di imbuto.
— Che musi, — disse Rokoff, che li osservava. — E voi dite capitano, che questi uomini non sono da temersi?
I calmucchi godono una fama incontrastata di essere ospitali quanto gli arabi.
— Giudicheremo dall’accoglienza che ci faranno. —
Lo Sparviero, che al momento in cui il capitano aveva dato il comando al macchinista, si trovava a soli trecento metri d’altezza, in meno d’un minuto toccò il suolo a soli cinquanta passi dall’accampamento.
Rokoff, Fedoro e il comandante, dopo essersi armati di fucili a palla, lasciarono la navicella, dirigendosi verso quel gruppetto di nomadi.
Il monaco s’era alzato, mandando grida di gioia.
— Non abbiate alcun timore, — disse il capitano in cinese.
— Ma voi siete uomini! — esclamò il Calmucco, nella egual lingua.
— E chi volevate che fossimo?
— Figli del sole e della luna.
— Se vi piace crederci tali, noi non ci opporremo.
— E quella bestia? — chiese il monaco, accennando, con un gesto di terrore, lo Sparviero.
— Ah! Quell’uccello sì che è un figlio della luna.
— E come si trova in vostro possesso?
— Gli uomini bianchi sono amici della luna e possono montare i suoi figli.
— E non vi mangia?
— Non ne ha bisogno. Quell’uccello fa a meno delle colazioni e dei pranzi, non vivendo che d’aria.
— Anche a noi non farà male?
— A nessuno.