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i misteri del capitano 155

Tibet è ricco d’argali e anche di jacks selvatici che valgono, per la squisitezza delle loro carni, i bufali ed i bisonti.

— E li cacceremo da qui?

— E perchè no? Correremo meno pericolo, signor Rokoff. Gli jacks addomesticati valgono i nostri buoi; allo stato selvaggio sono invece cattivissimi e non esitano a caricare i cacciatori a colpi di corna. —

In quell’istante delle urla acutissime si alzarono sotto lo Sparviero.

Il capitano, Fedoro e Rokoff, si erano vivamente precipitati verso la balaustrata, prendendo i fucili.

— Una carovana! — esclamò il capitano. — Da dove è sbucata che prima non l’avevamo veduta?

— Da quel bosco di betulle e di larici, — disse Rokoff. — Ma... toh! Si direbbe che ci adorano! Sono tutti in ginocchio e alzano le mani verso di noi con gesto supplichevole.

— Sono Calmucchi, — disse il capitano. — Non sono predoni e non avremo nulla da temere da parte di loro. Volete che andiamo a visitarli? Vedo che stanno rizzando le loro tende e poi vi è un prete fra di loro.

— Non mi rincrescerebbe, — rispose Rokoff.

— E poi non sono che una dozzina, — disse Fedoro. — Prenderemo le nostre armi.

— Macchinista! Scendiamo, — comandò il capitano.


CAPITOLO XX.

Le ambizioni d’un Calmucco.

I Calmucchi in quel frattempo erano rimasti sempre in ginocchio, in una specie d’adorazione, colle mani sempre tese verso lo Sparviero che, presumibilmente, scambiavano per la luna o per qualche altro astro del firmamento.

Erano in tredici con cinque cammelli molto villosi e tre cavalli ossuti e così magri che mostravano le costole. Dinanzi a tutti, inginocchiato su un vecchio tappeto sfilacciato stava un sacerdote, un mandiki, ossia monaco d’un ordine inferiore, d’una obesità enorme, elefantesca, rassomigliante a una massa di grasso coperta di pelle, con un viso così paffuto da rassomigliare a una vera luna piena, con due occhietti che si intravvedevano a malapena attraverso a due fessure carnose.