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150 | capitolo diciannovesimo |
— Oh!
— Sì, Rokoff. Dalle poche parole che ha pronunciate nella nostra lingua, quantunque orrendamente storpiate, ho sorpreso un accento che noi soli russi possediamo; e poi quella barba, quegli occhi azzurri, quella faccia un po’ larga con zigomi un po’ salienti, affatto speciali della razza slavo-tartara... no, non devo ingannarmi. Quell’uomo deve essere un nostro compatriota.
— E perchè non dirlo? Che cosa può aver da temere da noi?
— Ho notato un’altra cosa, Rokoff.
— Quale?
— Che quando il capitano ti ha presentato come ufficiale dei cosacchi, sulla sua fronte è passata come una nube e che nei suoi occhi è balenato un cupo lampo.
— Perchè dovrebbe odiare i cosacchi? — disse Rokoff, stupito.
— Come tutti gli esiliati che nostro padre, lo Tzar, manda a marcire nelle orribili miniere della gelida Siberia, — disse Fedoro. — Tu sai e te lo dico senza che tu abbia ad offendertene, che i cosacchi sono i tormentatori di quei disgraziati, anzi i loro più feroci aguzzini.
— Sicchè tu sospetti?...
— Che sia un evaso delle miniere d’Algasithal o di altre peggiori.
— Raccolto nel deserto per combinazione?
— No, doveva esistere qualche accordo: diversamente non saprei spiegare questa corsa dello Sparviero verso il settentrione, mentre avrebbe dovuto dirigersi costantemente verso il sud-ovest per condurci nell’Europa meridionale, come ci ha promesso.
— Allora sarà andato a prenderlo in qualche città della frontiera siberiana.
— Ah! Stupido!
— Che cos’hai, Fedoro?
— La ricevuta del telegramma!
Si frugò nelle tasche e trovatala, la spiegò rapidamente, gettandovi sopra uno sguardo.
— Maimacin, — disse. — È stato spedito dall’ufficio telegrafico di quella città, che è l’ultima della Mongolia e che si trova proprio sul confine della Siberia, di fronte alla città russa di Kiachta. Ecco la chiave del mistero.
— E tu vuoi che lo Sparviero si sia spinto fino in Siberia in così breve tempo?