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le trote del caracorum 139


Pareva che l’uomo o l’animale che fosse, cercasse d’aprirsi un passaggio.

— Tu a destra e io a sinistra, — sussurrò Rokoff.

Stavano per separarsi, quando le betulle s’aprirono ed un animale comparve, arrestandosi subito e fiutando l’aria.

Doveva essere un orso, quantunque fosse molto piccolo per crederlo tale, essendo non più lungo d’un metro.

Aveva il muso assai corto e la testa piuttosto larga, le zampe basse, coi piedi massicci e rotondi ed il pelame foltissimo, biancastro al dorso e nero sulla testa e sul collo.

Essendo i due cacciatori nascosti dietro una piega del suolo, non poteva averli ancora scorti, però il vento che soffiava dal lago doveva aver portato fino a lui le loro emanazioni.

Ed infatti non pareva molto tranquillo. Si alzava di frequente sulle zampe posteriori per spingere lo sguardo più lontano, raggrinzava il naso, aspirava l’aria, poi si lasciava ricadere a terra per poi tornare poco dopo ad alzarsi.

Di quando in quando mandava una specie di grugnito che somigliava un po’ al nitrito d’un mulo.

— Che cos’è? — chiese Rokoff a Fedoro, il quale non aveva veduto che i giganteschi orsi neri degli Urali e quelli bruni delle steppe.

— Un melaneco, — rispose il russo.

— Ne so meno di prima.

— Uno dei più piccoli orsi.

— Vado a prenderlo pel collo e lo porto vivo al capitano.

— Sei pazzo Rokoff?

— Non è più grosso d’un montone.

— Non vorrei provare le sue unghie.

— È dunque pericoloso!

— Assalito si difende al pari di tutti gli altri orsi.

— Sono buoni i suoi zamponi?

— Come quelli dei maiali.

— Allora prendi, mio caro. —

Rokoff aveva afferrato il fucile, slanciandosi risolutamente contro il melaneco.

Questi, scorgendo il cacciatore, si era alzato bruscamente sulle zampe deretane, spingendo innanzi quelle anteriori e sfoderando gli artigli.

A dieci passi, Rokoff aveva fatto fuoco.

Il melaneco, quantunque colpito in direzione del cuore,