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102 capitolo tredicesimo


Il capitano e i suoi due compagni si erano arrestati sulla soglia della stanza, guardando con orrore quegli uomini che pareva dovessero da un momento all’altro esalare l’ultimo respiro.

— Chi sono costoro? — chiese il capitano. — Dei moribondi? —

Il tartaro, che stava facendo girare lo spiedo, si volse, facendo un gesto di stizza, poi disse con voce tranquilla:

— Miei amici.

— Che tu hai avvelenato?

— No... sono dei mangiatori d’oppio. Lasciateli dormire; non vi daranno alcun impaccio.

— Lo hanno fumato?

— No, mangiato. Potete accertarvene, perchè nelle loro borse devono avere ancora parecchie pallottole.

— Che il diavolo se li porti! — esclamò Rokoff, slanciandosi fuori della stanza. — Quei miserabili mi fanno perdere l’appetito. —

Il capitano e Fedoro, non meno nauseati, lo avevano seguito, preferendo fare colazione all’aperto piuttosto che in compagnia di quei ributtanti individui.

— Io avevo finora creduto che l’oppio si fumasse e non già che si mangiasse, — disse il capitano. — Quella gente si avvelena lentamente.

— I mangiatori d’oppio sono numerosi in Cina e soprattutto nella Mongolia — rispose Fedoro, — nonostante le leggi severe decretate dall’Imperatore.

— E ne assorbiscono molto?

— Generalmente si accontentano di una pallottolina di cinque o dieci centigrammi; fatta però l’abitudine, raddoppiano e anche triplicano la dose.

— E che cosa provano? — chiese Rokoff.

— Dapprima una viva sovraeccitazione fisica e intellettuale che li rende talvolta pericolosi, diventando temerari e spavaldi; poi un benessere generale che li immerge in un sonno profondo, abbellito da sogni piacevoli. A poco a poco si abbrutiscono e diventano ributtanti, ischeletriti, tremanti come se avessero sempre indosso la febbre e quasi nella impossibilità di camminare diritti. Un mangiatore d’oppio si riconosce subito essendo sempre in preda a una specie di sonnolenza che rende le sue mosse tarde e incerte.

— E non possono abbandonare quel brutto vizio?