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100 | capitolo tredicesimo |
Udendo parlare di denaro, il tartaro, venale come tutti i suoi compatriotti, abbozzò un sorriso e fece col capo un cenno affermativo.
— Date, disse poi.
Il capitano gli gettò fra le mani due fagiani e un’anitra.
— Sbrigatevi soprattutto, — gli disse. — È mezzodì e non abbiamo fatto ancora colazione.
— Ecco un volto che non mi rassicura affatto, — disse Rokoff, seguendo collo sguardo il tartaro.
— Gli abitanti di questa regione sono mezzo selvaggi, — rispose Fedoro. — I cinesi non sono ancora riusciti a civilizzarli, dopo tanti secoli di contatto.
— Avrei preferito tornarmene all’isolotto — disse Rokoff.
— Ed io no, — disse il capitano.
— E si può conoscerne il motivo?
— Sapete che io penso continuamente ai manciù che ci hanno cannoneggiati? Io temo una sorpresa da parte loro ed è perciò che ho acconsentito ad attraversare il fiume onde sorvegliare le loro mosse.
— Dove si trova il fortino?
— Su questa riva; sicchè, se vorranno cercarci, saranno obbligati a passare per di qua, o alla nostra destra, o alla nostra sinistra. In tale caso ci ripiegheremo prontamente sul fiume e prenderemo il largo.
— E se giungessero prima che la riparazione fosse compiuta? — chiese Fedoro.
— Ci innalzeremo come meglio potremo e andremo più lontano a trovare un luogo più deserto.
— O daremo battaglia, — disse Rokoff, risolutamente. — Io non ho paura nè dei manciù, nè dei cinesi. —
Un latrare assordante interruppe la loro conversazione.
— Che i cani del tartaro odino gli europei? — chiese Rokoff, ridendo. — Udite che fracasso! L’hanno con noi.
— O che il nostro ospite o qualcuno dei suoi abbia invece cominciato a strangolarli? — disse Fedoro.
— Eh che! — esclamò il cosacco. — Si allevano i cani per poi ucciderli?
— E per mangiarli anche.
— Oh! S’ingrassano appositamente come si fa da noi coi maiali?
— Sì, e non solo per le loro carni, bensì per ottenere