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90 capitolo dodicesimo


Al sud, a una grande distanza, si vedeva giganteggiare sempre la grande muraglia, che seguiva le capricciose curve e le salite d’una catena di monti.

Al nord invece, seminascosta dalla nebbia, appariva una pianura sconfinata, che scintillava vivamente sotto i raggi del sole, era la steppa od il deserto di Gobi, o meglio lo Sciamo, come lo chiamano i tartari.

A mezzodì un gran nastro d’argento si delineò verso l’ovest, tagliando tutto l’orizzonte.

— Il fiume giallo, — disse il capitano, dopo averlo osservato attentamente con un buon canocchiale. — Siamo sui confini dell’antico impero cinese; al di là vi è la Mongolìa.

— Andremo a vederlo? — chiese Fedoro.

— Anzi, seguiremo per qualche tratto il suo corso, prima di slanciarci attraverso il deserto.

— E perchè volete attraversarlo, mentre la nostra rotta per andare in Europa sarebbe il sud-ovest? — chiese Rokoff.

Il capitano guardò il cosacco per qualche minuto, ma non rispose, anzi si allontanò raggiungendo il macchinista che teneva la ruota del timone.

— Che strano uomo! — esclamò Rokoff. — Che abbia tutt’altra intenzione che di condurci in Europa? Comprendi qualche cosa tu Fedoro?

— No, Rokoff.

— Quale scopo può avere per condurci attraverso lo Sciamo?

— Non riesco a indovinarlo.

— Che voglia invece condurci in Siberia?

— A fare che cosa?

— Ho pensato che quest’uomo potesse essere... indovina chi, Fedoro.

— Non saprei.

— Un agente segreto della polizia russa, incaricato di scoprire gli esiliati che fuggono dalle miniere siberiane.

— In tal caso, imbarcando noi sul suo Sparviero, avrebbe preso un granchio colossale, — disse il russo, ridendo. — Io credo invece che sia uno scienziato.

— Appartenente a quale nazione? Vorrei sapere perchè non ce lo dice, — disse Rokoff.

— Forse un giorno ce lo dirà. D’altronde noi non possiamo lamentarci della sua ospitalità, quindi non c’importa di sapere se sia americano, o russo, o inglese, o italiano...