Pagina:Salgari - Duemila leghe sotto l'America - Vol. II.djvu/47


il vulcano 45


neri del Timboro invece caddero fino a Varauni, capitale del regno di Borneo che è lontana nientemeno che millequattrocento chilometri!

— E noi dovremo sfidare simili mostri! esclamò Burthon.

— Se vuoi giungere ai tesori degli Inchi bisognerà forse sfidarli, disse l'ingegnere.

— E noi li sfideremo.

— Lo vedremo, Burthon.

Sir John guardò il suo cronometro e visto che mancavano quasi due ore al suo quarto di guardia tornò a sdraiarsi. O'Connor lo imitò e Morgan e Burthon ripresero i loro posti, l'uno a poppa e l'altro a prua.

Ma era destinato che quella notte non dovessero dormire. Infatti una mezz'ora dopo un cupo boato che fece tremare le vôlte della galleria, si udì nelle viscere della terra, seguito poco dopo da tre o quattro scoppi sordi sordi.

Burthon e Morgan, vivamente impressionati, tornarono a svegliare i compagni. L'ingegnere ordinò che si accostasse il battello alle due rive e sbarcò prima su quella destra e poi su quella sinistra esaminando attentamente le rupi. Dappertutto vide immensi ammassi di lave, alcuni dei quali, spezzati dal piccone, conservavano ad una profondità di soli pochi centimetri un calore ancora fortissimo.

— Non c’è dubbio, siamo vicini ad un vulcano, diss'egli ai compagni. Fate appello a tutto il vostro coraggio e avanti!

Ben presto altri boati si udirono, ma assai più forti del primo e la temperatura si elevò considerevolmente. Sir John guardò il termometro: segnava 36° Rèamur! Era una temperatura d'Africa.

Durante tutta la notte nessun potè chiudere