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110 capitolo xxvii.


nè alcun pezzo di carne. Persino gli occhi gli erano stati strappati e il cranio spezzato, fosse dal robusto becco dei condor.

— Padrone, disse Culluchima. Vi sono delle lettere incise su quel masso di basalto. Forse vi spiegheranno il mistero.

Il signor Benalcazar s'avvicinò al masso indicato che stava proprio ai piedi della croce e lesse:

“I tesori degli Inchi portano sventura.”

Furono quelle parole una rivelazione per il peruviano.

— Si tratta di una vendetta degli Inchi, disse. Senza dubbio quel disgraziato era qui venuto a cercare i tesori di Huascar.

— Così deve essere, disse Culluchima. So che su questi monti vivono alcuni discendenti dei Curachi di Huascar e voi sapete che i soli Curachi di quel disgraziato imperatore sapevano ove erano stati nascosti i tesori ambiti dagli spagnuoli.

— E sai tu dove sono nascosti?

— No, e se anche lo sapessi non ve lo direi. I discendenti dei Curachi vegliano attentamente e uccidono spietatamente chi desta a loro qualche sospetto.

— Sai dove possiamo trovare degli indiani?

— Sì, padrone.

— Guidami alle loro capanne. Non lascierò questi monti finchè non avrò saputo chi sia l’uomo assassinato dagli Inchi.

Il signor Benalcazar mantenne la parola. Quattro giorni errò su quei monti, interrogando or questo e or quell'indiano e riuscì a sapere che l'assassinato era un uomo raccolto sul lago Titicaca. I discendenti dei Curachi prima l'avevano