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64 | capitolo viii. |
navigava allora sotto l’Arkansas a settecento e quindici metri di profondità.
Alle 9, dopo la cena, O’Connor, pel primo, montò la guardia. Fu spenta la macchina per non consumare troppo rapidamente la scarsa provvista di carbone, furono riempite le due lampade che ardevano a poppa l’una e a prua l’altra, poi i tre compagni del marinaio s’accomodarono nel fondo del battello chiudendo gli occhi.
Nessun incidente venne a turbare la guardia dell’irlandese. Alle 12, Morgan lo surrogò, poi toccò all’ingegnere e finalmente a Burthon.
Il meticcio, come i suoi compagni, aveva caricata la pipa e fumava vigorosamente per scacciare il sonno che suo malgrado l’assaliva.
Il canale era sempre largo, la corrente abbastanza rapida e il silenzio perfetto. Le due lampade spandevano all’intorno una luce chiarissima, mostrando gli enormi colonnati, che di tratto in tratto sorgevano dalle nere acque.
Fumava da una mezz’ora, cogli occhi mezzi chiusi e la mano dritta sulla barra, quando un violento rollìo scosse improvvisamente il battello.
Il meticcio, sorpreso e un po’ spaventato, si stropicciò energicamente gli occhi e guardò intorno. La corrente era affatto tranquilla, nondimeno il battello si agitava ancora da babordo a tribordo.
— Oh! oh! esclamò. Cosa succede? Abbiamo urtato?
Staccò la lampada di poppa e guardò nuovamente. Nè a babordo nè a tribordo apparivano colonnati, nè a fior d’acqua apparivano scogliere.
— È strano, borbottò. Eppure non sogno.... Se fosse toccato un caso simile a O’Connor, direbbe che è stato uno scherzo di qualche fantasma, ma Burthon non ha mai creduto ai folletti.