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58 capitolo vii.


— Ma dove siamo? chiese O’Connor, che si affaticava alla barra.

— Vicini a una cateratta senza dubbio, rispose l’ingegnere che era ritto a prua con una manovella in mano. Non l’odi tu a muggire?

— La scenderemo?

— Se è possibile. Burthon, prepara una torcia di bengala.

Il meticcio piantò in mezzo al battello un’asta di ferro e sulla cima vi legò solidamente la torcia.

Ad un tratto una sottile pioggia si riversò sul battello. L’ingegnere alla luce delle lampade, vide a prua una gigantesca colonna di vapore che pareva uscisse da un abisso.

— La cateratta! gridò. Macchina indietro!

Nel mentre l’elice turbinava in senso inverso, Burthon dava fuoco alla torcia di bengala. Un grido d’ammirazione e nel tempo stesso di terrore sfuggì dalle labbra dei quattro esploratori.

A quindici soli passi dalla prua dell’Huascar, le acque del lago, tinte di rosso dalla viva luce della torcia, si scagliavano giù per una rapida china con impeto irrefrenabile, accavallandosi, scrosciando, muggendo con intensità spaventevole.

Dal fondo, una grandissima nube di vapore s’ergeva, pure tinta di rosso, strisciando contro le rupi e ricadendo in minutissima pioggia.

A destra, a manca e dalla vôlta colossali rocce, minate, sventrate, s’alzavano o pendevano, trasparenti come alabastro le une, nere come il carbone le altre, o scintillanti come fossero tempestate di gemme e screziate d’oro. Nè l’ingegnere, nè Burthon, nè O’Connor, nè Morgan, avevano mai visto uno spettacolo simile.

— Ritorniamo! disse il meticcio con voce alterata. Qui v’è la morte.