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capitolo xxv. - le vittime del polo 235


biciclette sprofondavano, facendo trabalzare l’ammalato, il quale emetteva frequenti gemiti. Di tratto in tratto dovevano fermarsi per riposare, prima d’intraprendere erte salite, che di quando in quando sbarravano loro il passo, o per concedere un po’ di tranquillità al loro compagno.

Ed intanto il freddo cresceva, diventava più acuto, più tagliente. Un vento gelido spingeva nembi di nevischio che si rompevano addosso a quei disgraziati, acciecandoli, coprendoli d’un candido lenzuolo che tosto gelava sulle loro vesti.

Il 28 febbraio, dopo una notte orribile, si rimettevano in cammino con un freddo crudissimo. Il termometro era disceso a -30° e la neve cadeva a larghe falde, volteggiando intorno a loro, sotto i furiosi colpi del vento australe.

I poveri esploratori procedevano a casaccio attraverso a quelle immense pianure spazzate dall’uragano. Non si arrestavano, perchè sapevano che un ritardo di pochi giorni poteva riuscire fatale, ma quante fatiche, quanti sforzi per non cadere!

Quel freddo eccessivo a cui non erano ancora abituati, li accasciava, malgrado la loro energia straordinaria. Si sentivano paralizzare le forze, intorpidirsi le loro volontà, e provavano una specie d’ebbrezza che rendeva incerti i loro movimenti.

La respirazione diventava dolorosa e l’alito che usciva dalle loro labbra, subito si congelava e cadeva a terra sotto forma di sottilissimi aghi di ghiaccio, i quali, nel rompersi, producevano uno scricchiolio simile al laceramento di un pezzo di velluto.

L’evaporazione dell’umidità dei loro corpi pure si congelava e formava attorno ad essi una certa nebbia, che