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capitolo xxiv. - i primi freddi 227


— Andiamo adunque, e che Iddio serbi le nostre forze per quest’ultima impresa.

Allestirono in fretta la colazione consistente in una zuppa di pemmican e in una tazza di thè bollente, poi si rimisero in viaggio costeggiando il mare che era sempre coperto d’immensi ghiacci galleggianti.

Quel canale, poichè tale doveva essere, era irregolare e tendeva a piegare verso il sud-est. Doveva però avere una grande larghezza, poichè nè Wilkye nè i suoi compagni riuscivano a scorgere le coste del continente. Colossali ice-bergs, tagliati a picco e privi di tutte quelle innumerevoli sporgenze che si riscontrano in quelli che galleggiano nei mari Artici, e grandi banchi, streams e palks, allungati gli uni e arrotondati gli altri, lo ingombravano, urtandosi rumorosamente. Di quando in quando uno di quei colossi perdeva l’equilibrio e si capovolgeva sollevando delle immense ondate le quali si frangevano, con lunghi muggiti, sulle sponde del campo di ghiaccio.

Qualche raro pinguino, appollaiato sui margini, si vedeva di tratto in tratto, ma si teneva lontano e guardava stupidamente i velocipedisti emettendo qualche rauco grido.

Gli esploratori non perdevano tempo. Essendo il margine del campo liscio e privo di ostacoli, divoravano la via con crescente velocità, ben sapendo che in quella rapidità stava la loro salvezza.

Disgraziatamente quel canale pareva che non avesse fine. Il 13 febbraio, dopo aver percorso in quattro giorni circa trecentoventi miglia, non era ancora apparso il continente.

Quale vastità aveva adunque quel mare, che si stendeva attorno al polo? Wilkye ricominciava a diventare