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capitolo xvii. - il deserto di neve 163


— Alto! esclamò l’americano. La via è tagliata dinanzi a noi!

— Da un fiume? chiesero i velocipedisti.

— No, da una spaccatura, rispose Wilkye, arrestando il velocipede.

Scesero tutti e tre e s’avanzarono verso una profonda apertura che misurava una larghezza di oltre cinquanta metri e che si estendeva dal nord-ovest ad sud-est per un tratto immenso. In fondo si scorgeva una superficie liscia, rotta qua e là da leggiere ondulazioni che pareva fossero state prodotte dall’acqua.

— Un fiume? chiese Peruschi.

— O un braccio di mare? disse Wilkye, che era diventato pensieroso.

— Un braccio di mare qui? Siamo già a ottanta miglia dalla costa.

— Pure io sospetto che questo sia lo stretto di Bismark. Comunque sia, ci chiude il passo e rende critica la nostra situazione.

— Cerchiamo di aggirarlo, disse Blunt. La discesa è impossibile con queste sponde tagliate a picco.

— Sapete dove finirà? Può prolungarsi fino al mare e tagliare la costa sulla quale sorge la nostra capanna. Nessuno ha esplorato l’interno di queste terre.

— Cerchiamo una sponda meno erta, disse Peruschi.

— Proviamo.

— Ma ci sosterrà il ghiaccio? chiese Blunt.

— La forza del ghiaccio è prodigiosa, rispose Wilkye. Una lastra dello spessore di due pollici sopporta un uomo senza spezzarsi; di tre e mezzo il peso d’un cavallo col suo cavaliere; di cinque, un pezzo d’artiglieria, di otto un furgone carico, e di un piede dei reggimenti di soldati. Andiamo a cercare il passaggio.