e discorre con loro della mamma in un modo da fare scoppiare il cuore a chi l’ode. Gli abbiamo detto che almeno non dia a divedere tanta afflizione per amore di quei ragazzi; ma egli risponde: per carità, lasciatemi sfogare; anche loro conoscono pur troppo la perdita che hanno fatto; anche loro hanno bisogno di sfogarsi meco; tanto non ci sarà più bene per noi; chi ci potrà liberare dalla miseria?» — «Povero Giacomo, soggiunse la moglie, è disgraziato davvero! Ma procuriamo di trovar la maniera di aiutarlo. Accordati co’ tuoi amici... anch’io ci penserò... qualche cosa potremo fare...» Nel tempo di questo colloquio anche la Giuseppina aveva lasciato di mangiare; e non dava nemmeno retta alle carezze di Fido, un bel cane, al quale voleva molto bene. Fido era il suo prediletto, il suo spasso; le andava sempre dietro; e quantunque fosse quasi più grosso di lei, nonostante la obbediva a ogni suo cenno, e si lasciava fare ogni cosa. Ma quel giorno le sue feste erano inutili. Poteva scodinzolare, leccarle le mani, fregarle la zampa sopra il vestito... la Giuseppina non gli dava retta; gli pose in terra la scodella perchè mangiasse, ma non gli restituì le carezze, e Fido non volle mangiare. Alla fine la Giuseppina, che ascoltava attenta i ragionamenti dei suoi genitori, fece gli occhi rossi e pregni di lacrime. La madre che la vide le ne domandò la cagione; ma il singhiozzo le impedì di risponder subito. Poi correndo ad abbracciare il babbo e la mamma, disse loro così: «Babbo, mamma, voi sapete che vi voglio tanto