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cecchin salviati | 129 |
e l’Agosto del 1527 arrivò a tale, che morirono fino a 150 persone per giorno.
Francesco e l’Anna, inesperti e dubbiosi del fine al quale sarebbero ridotti da tante calamità unite insieme, stavano in gran pensiero, e si vedevano abbandonati dagli amici e dai parenti, quali per fuggire la morìa, quali per esserne già periti. Lo stesso Giorgio, con gran dolore del tenero amico, aveva dovuto tornare ad Arezzo per volere del padre suo; e Francesco frequentando ora la bottega di un pittore, ora quella di un altro, invano si studiava di trovare nell’arte una distrazione ai suoi gravi timori.
Un dì suo padre tornò a casa col viso coperto di livide macchie, e con l’animo alquanto turbato, sebbene facesse ogni sforzo per nascondere l’interno travaglio. Si provò a mangiare in compagnia dei figliuoli che lo guardavano con incerto sbigottimento, ma non gli riescì; e talora si faceva tutto pallido, un po’ dopo appariva acceso, infuocato, e qualche volta era preso dalle vertigini. L’Anna lo interrogò se si fosse sentito male, se avesse avuto bisogno d’alcuna cosa; ma egli o non le rispondeva o si studiava di dissiparne i timori; indi con accortezza faceva in modo che i figliuoli non avessero occasione di accostarsegli. Alla fine s’alzo risoluto da sedere, e non potendo nascondere il suo turbamento, con parole tronche ordinò loro di non si muovere, e con passi un po’ vacillanti si ridusse in camera sua. Quivi si trattenne pochi minuti, ripose le sue carte in un