bito!» rispose Giorgio con più ardire che mai. — «Avanti!» ripete Francesco; e corsero verso piazza. Firenze pareva diventata un campo di guerra. Alla coscia dei ponti, alle porte dei palazzi, agli sbocchi delle vie e delle piazze erano genti armate, feroci, impazienti di spogliare i cittadini sotto colore di vendetta, e «con le picche dall’un canto all’altro, a guisa di sbarre attraversate,» non lasciavano accostarsi nessuno; i cittadini chiusi nelle case, sbarrati usci e botteghe, sospeso ogni affare, ogni lavorìo; silenzio e sbigottimento per tutto. Non si persero d’animo i giovinetti; passarono rattamente di mezzo ai soldati che guardavano in cagnesco; e non badando alle torve occhiate nè allo strepito delle armi nè alle minacce, in due salti furono sotto il palazzo tra la macìa dei sassi, e si chinarono a cercare, a raccogliere i pezzi del braccio. Quell’atto svegliò il sospetto delle sentinelle più vicine che si mossero per cacciarli o per arrestarli; ma Francesco, interpostosi fra le picche e Giorgio che raccoglieva i pezzi più piccoli, gridò con intrepidezza: «In nome della signoria lasciateci fare.» I soldati rimasero stupiti a tanto ardire; e visto che quei ragazzi non volevano fare altro che prendere i pezzi di marmo, e che già molti popolani s’erano affollati sul canto di Vacchereccia, temerono qualche tumulto, non gli toccarono, e gli lasciarono andare. Allora Francesco e Giorgio a lenti passi, col capo alto, quasi in trionfo ripassarono di mezzo agli armati, e tra l’applauso della gente maravigliata del