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Ma perchè cittadini nella scuola della fede, fummo molti, fummo veggenti a vedere, capaci a sentire nei nostri cuori tutta Italia risorgente alla voce di chi le diceva: Surge et ambula. La virtù della tradizione ci ammonì, che era a fare qualche cosa, che la società nazionale era a formarsi. Mano all’aratro, dicemmo; torniamo monaci del VI.° secolo: le turbe han fame; asciughiamo paludi, seminiamo campi.... Il nostro aratro fu la stampa; era una nazione, che chiedeva il pane del Cristiano ideale.
Quale frutto avrebbe arrecato al mondo da incivilire l’opera di S. Benedetto, se l’avesse circoscritta, associando gli uomini col solo istinto della preservazione, e della conservazione? Egli li associò col vincolo del pensiero religioso. La terra, la città si unificò per cura dei monaci col sodalizio degli spiriti credenti nello stesso Cristo. Così oggi l’Italia doveva innanzi ordinarsi con la fratellevole concordia delle menti, con la unificazione del pensiero, perchè fosse veramente nazione nell’ordine dei fatti. Ed a questo intendemmo. Mentre l’istinto nazionale stringeva le inoneste federazioni delle sette, noi ordimmo la grande federazione del pensiero italiano. Questo languiva nell’esilio, trepidava nella patria, taceva per tutto. Noi lo andammo a trovare ovunque fosse stato: passammo incolumi nel campo delle fazioni, perchè protetti dalla neutralità del nostro sajo monastico. La tessera della nostra fratellanza era — Cristo e l’Italia — Tutti ci conobbero, tutti risposero, venivano tutti. L’Ateneo italiano da compilarsi dai monaci, da pubblicarsi coi tipi di Monte Cassino, questa Enciclopedia della nostra patria, sarebbe stata la nazione del no-