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ATTO TERZO | 311 |
stificare, se sono condannata sopra sospetti senza il concorso di altre prove, che quelle della vostra gelosia, dichiaro ch’è un iniquo rigore, e che avete violata la legge. Siatemi tutti testimonii ch’io me ne appello all’oracolo; Apollo divenga mio giudice.
1° Sign. Quest’appello, signora, è giusto: s’ascolti l’oracolo. (escono alcuni Uff.)
Er. L’imperatore di Russia era mio padre: ah, s’egli vivesse ancora, e vedesse qui la sua figlia accusata! Vorrei potesse mirar soltanto la profondità della mia miseria; ma non però che volesse farne vendetta. (rientrano gli Ufficiali con Cleomene e Dione)
Uff. Cleomene e Dione, voi dovete giurare su questa spada della giustizia d’essere stati entrambi a Delfo, e d’averne riportato quest’oracolo chiuso sotto sigillo, consegnatovi dal gran sacerdote d’Apollo. Giurar dovete ancora, che violar non avete volato dipoi questo foglio.
Cleom. e Dion. Lo giuriamo.
Leon. Aprite il sigillo, e leggete.
Uff. (legge) Ermione è casta, Polissene è onesto, Camillo fido, Leonte un geloso tiranno; la sua innocente figlia è un frutto legittimo, e il re vivrà senza eredi, se non si trova la fanciulla che ha perduta.
Tutti i Sign. Lodi e benedizioni al grande Apollo.
Er. Eterne lodi.
Leon. Leggeste il vero?
Uff. Sì, mio signore.
Leon. Non v’è una parola di vero in tutto quell’oracolo: voglio che il processo continui: una menzogna fu questa. (entra uno del seguito precipitosamente)
Seg. Mio re, mio re!
Leon. Che vuoi tu annunziarmi?
Seg. Oh signore! voi m’odìerete per la novella ch’io vi porto: il principe vostro figlio per timore dell’esito di questo processo è...
Leon. Ebbene?
Seg. È morto.
Leon. Apollo è sdegnato, e i Cieli si dichiarano contro la mia ingiustizia. (la regina sviene) Che ha ella?
Paol. Questa novella è stata per lei mortale. — Guardatela, guardatela, e compiacetevi dell’opera vostra.
Leon. Trasportatela lungi da qui; è il tuo cuore ch’è oppresso; ella ritornerà in sè; ai sospetti ho data troppa fede. —