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ATTO SECONDO 303

sovrane della natura. Non è quella una nemica su di cui possa rovesciarsi lo sdegno del re, e colpevole non è dei falli della sua genitrice, se pure questa ne ha commesso qualcuno.

Cust. Io ancora lo credo.

Paol. Non abbiate dunque alcun timore; sull’onor mio, io mi porrò fra la sua collera e voi. (escono)

SCENA III.

La stessa. — Una stanza nel palazzo.

Entrano Leonte, Antigono, Signori ed altri del seguito.

Leon. Non riposo il dì, non la notte! È una vera debolezza il non sopportar meglio questa sciagura. Sarebbe anche debolezza, se la cagione e gli oggetti dei mali miei non fossero più al mondo. Ella... oh, ella è un’adultera! — Il suo seduttore è lungi dalla mia vendetta: ma su di lei aggraverò la mano: mi si dica che è morta, e troverò allora la pace perduta. — Olà.

Sig. Signore?

Leon. Come sta il fanciullo?

Sig. Ha dormito bene tutta la notte, e speriamo che sia finita la sua indisposizione.

Leon. Quanto nobile è l’istinto di quel bambino! Sentendo il disonore di sua madre, è stato veduto a poco a poco languire, e rimanere profondamente afflitto; egli si è come appropriato la vergogna del delitto della sua genitrice, ed ha perdute le forze, il sonno, la volontà di mangiare. — Tornate a veder come sta. (esce quello del seguito) Vergogna, vergogna! Non pensiamo a lui: quando a lui penso, le mie idee di vendetta svaniscono. — E colui? Egli è troppo potente di partigiani e di confederati: viva dunque finchè venga un’occasione propizia. La mia vendetta d’ora sia rivolta sopra la sua complice. Camillo e Polissene ridono di me; prendono a scherno i miei dolori, ma non riderebbero se io fossi presso a loro, come non riderà costei. (entra Paolina colla bambina)

Sign. Voi non potete entrare.

Paol. Ah! secondatemi tutti piuttosto, nobili e cari signori: temete voi più la sua tirannica passione, che tremar non dobbiate per i giorni della regina? Quell’anima pura è più innocente ch’ei non sia geloso.

Ant. Basta, signora.