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250 | LA COMMEDIA DEGLI EQUIVOCHI |
ATTO SECONDO
SCENA I.
Una piazza pubblica.
Entrano Adriana e Luciana.
Adr. Nè mio marito, nè il servo che gli avea mandato dietro, ritornano. È certo, Luciana, saranno oramai le due.
Luc. Forse qualche mercante l’avrà invitato, ed ei sarà ito a pranzare altrove. Cara sorella, desiniamo noi pure, e non v’impazientite. Gli uomini dispongono della loro libertà. Non v’è che il tempo che li domini: onde abbiate pazienza.
Adr. Ma perchè la loro libertà deve essere più estesa della nostra?
Luc. Perchè i loro negozii son sempre fuori di casa.
Adr. E quando io voglio comportarmi al par di lui, egli l’ha in mala parte.
Luc. Non dimenticate mai, sorella, che un marito tien le redini della vostra libertà.
Adr. Non vi sono che bestie stupide che possano lasciarsi padroneggiare così.
Luc. La libertà senza freno è sempre accoppiata colla sventura. Non v’è nulla sotto l’occhio del Cielo che non vada soggetto a certe leggi. Gli animali, i pesci, gli uccelli son sottomessi ai loro maschi, e si inchinano dinanzi alla loro autorità; l’uomo più vicino a Dio, Re di quanto esiste, Signore del vasto mondo e dell’umido impero dei mari, dotato d’intelligenza e di un’anima immortale, di un grado assai al disopra dei pesci e degli uccelli, è padrone di sua moglie, è il suo supremo signore: sottomettetevi perciò, sottomettetevi.
Adr. È forse questa schiavitù che fa che non vogliate maritarvi?
Luc. No: ma la croce congiunta al letto nuziale.
Adr. Ma se foste maritata dovreste assoggettarvi.
Luc. Prima che impari ad amare, vuo’ imparare ad obbedire.
Adr. E se vostro marito si perdesse altrove?
Luc. Finch’ei non ritornasse, starei paziente.
Adr. Finchè la pazienza non è intorbidata, ella puote usarsi: