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230 | PERICLE PRINCIPE DI TIRO |
Pantomima.
Gov. Osservate qual dolore può dare una fallace credenza! Il povero Pericle sospiroso e mesto lascia Tarso, e di nuovo s’imbarca col voto di non più lavarsi, di non più radersi i capelli, di non più deporre quelle nere vestimenta. Egli ha una tempesta nel cuore che rugge, e lo fa lagrimare. Udite l’epitafio da cui gli fu suscitata: esso è per Marina, e lo fe’ la malvagia Dioniza. (legge l’iscrizione che è sulla tomba)
Monumento.
La creatura più vaga, più amorosa, più bella, qui giace: essa morì nella primavera degli anni. Era di Tiro, era figlia di un re: Marina avea nome, e al nascer suo presiedè Teti, la dea dalle belle chiome. Quest’anima soave è ora andata in cielo, dove gode la gloria degli immortali.
Niuna maschera si addice meglio alla scelleratezza, della pieghevole e vile adulazione. Lasciam che Pericle creda per ora sua figlia estinta, e si dia in balìa della fortuna: non dobbiamo adesso mostrare il dolore di questa figlia. Con celere volo riportatevi dunque a Mitilene. (esce)
SCENA V.
Mitilene. — Una strada dinanzi al lupanare.
Escono dal lupanare due Gentiluomini.
1° Gent. Udiste mai cosa simile?
2° Gent. Nè mai più la simile se ne udrà in un tal luogo, quando colei se ne sia dipartita.
1° Gent. Ascoltar là dentro una predica! Chi sel sarebbe sognato?
2° Gent. Venite, ne ho fradicie le orecchie. Vogliamo andare a udire cantar le Vestali?
1° Gent. Farò ogni cosa che sia virtuosa, dopo tal lesione di moralità. (escono)