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ATTO QUINTO 181

un demonio. Degnatevi udirmi voi stesso, perocchè queOo che ho da rivelare, deve o farmi punire come colpevole d’impostora, farmi ottenere da voi soddisfazione. Degnatevi d’udirmi.

Ang. Signore, la di lei ragione non è molto ferma, io temo; ella m’ha chiesto grazia per suo fratello, ch’è stato condannato per giustizia.

Is. Per giustizia?

Ang. Ed ora sfogherà il suo dolore in declamazioni amare, e chi sa quanto strane.

Is. Sì, strane infatti, ma pur vere. Quest’Angelo è uno spergiuro; non è ciò strano? Quest’Angelo è un carnefice; non è ciò strano? Quest’Angelo è un’ipocrita, un corruttore di vergini, un libertino indurato: non è ciò strano, assai strano?

Duc. Stranissimo, se fosse.

Is. Vero è quanto io affermo, come è vero ch’egli è Angelo: la verità sola ho parlato.

Duc. Fatela ritirare. — Povera infelice! È la debolezza dei suoi sensi che la fa discorrere così.

Is. Oh mio principe! ve ne supplico per quanto avete di più sacro, di por mente a quello ch’io dico, e di non credere che io sia folle; non giudicate impossìbile quello ch’è inverosimile soltanto: no, impossibile non è che un uomo, ch’è il più vile scellerato della terra, rassembri così riservato, così grave, così esatto ne’ suoi doveri come sembra Angelo; sì, è possibile che Angelo, in onta di tutte le sue belle apparenze, del suo esteriore di virtù, de’ suoi titoli e delle sue parole, sia il primo dei malandrini. Credetelo, illustre principe, egli lo è anche di più di quello ch’io dico, e io non ho parole per farvi comprendere tutta la sua ignominia.

Duc. Sull’onor mio, se questa fanciulla è insensata (come debbo crederla), la sua pazzia ha tutta l’apparenza del senno; le sue idee s’incatenano l’una coll’altra, come non sogliono fare nei dementi.

Is. Grazioso duca, deponete tal pensiero, e non vi lasciate acciecare dalla superiorità di condizione del mio avversario: adoprate la vostra ragione per far uscire la verità dalle tenebre in cui sembra nascosta, e non per tener adombrata l’impostura, che mostra le apparenze della verità.

Duc. Certo, molti che passano per savi, danno a divedere minor senno di lei. — Che volevate dire?

Is. Sono la sorella d’un infelice, chiamato Claudio, condannato da Angelo a perder la testa, per un atto di concupiscenza.