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318 È TUTTO BEN£ QUEL CHE A BEN RIESCE


ATTO QUARTO


SCENA I.

A breve distanza dal campo fiorentino.

Entra ilSignore con una mano di soldati.

Signore. Ei non può venire che di qui. Allorchè v'avventerete sopra di lui, spaventatelo con aspre parole, nè vale se anche non saranno intese da voi; bisogna poi che fingiamo di non intenderlo, eccetto uno di noi che metteremo innanzi come dragomanno.

Sold. Buon capitano, lasciate ch’io sia questi.

Signore. Non sei tu conosciuto da lui? Non gli è nota la tua voce?

Sold. No, signore, ve n’assicuro.

Signore. Ma qual lingua gli parlerai?

Sold. Una lingua simile a quella che voi adoprerete con me.

Signore. Giova ch’ei ne creda una banda di stranieri al soldo del nemico. Non dimentichiamo ch’ha una lieve tintura di tutti i dialetti dei paesi circostanti; perciò bisogna che ognuno di noi parli in un gergo alla sua guisa, senza sapere quello che ci diremo l’uno coll’altro. Ciò che dobbiamo aver bene a mente è il nostro disegno. — Quanto a voi, turcimanno, forza è che sappiate ben dissimulare. — Ma nascondiamoci dietro quella siepe: eccolo che viene per rubare due ore al sonno, e tornar quindi a giurare le menzogne che ha immaginate. (entra Parolles)

Par. Dieci ore! Fra tre ore rientrerò al quartiere. Che dirò poi che ho fatto? Dev’essere un’invenzione plausibile e credibile: cominciano a conoscermi, e le disgrazie già mi cadono sul capo. La mia lingua è troppo ardita, troppo temeraria; ma il mio cuore ha il timor di Marte dinanzi a sè, e non sostiene quello che il mio labbro dichiara.

Signore. (a parte) Ecco la prima verità di cui la tua lingua si sia mai resa colpevole.

Par. Qual diavolo ha potuto incitarmi ad intraprendere quest’opera conoscendone l’impossibilità, e non avendone alcun desiderio? Bisognerà che da me stesso mi faccia alcune ferite