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160 DUE GENTILUOMINI DI VERONA


SCENA IV.

Milano. — Un appartamento nel palazzo del Duca.

Entrano Valentino, Silvia, Turio e Speed.

Sil. Mi fido...

Val. Madonna?

Sp. Padrone, messer Turio vi guarda bieco.

Val. Ne è cagione l’amore.

Sp. Non di voi.

Val. Della mia amante dunque.

Sp. Sarebbe bene che lo correggeste.

Sil. Mi fido, voi siete malinconico.

Val. Davvero, signora, lo sembro.

Tur. Sembrate voi quel che non siete?

Val. Forse.

Tur. Dunque fingete?

Val. Così fate pur voi.

Tur. Che! Sembro io quel che non sono?

Val. Sembrate savio.

Tur. Che prova avete dell’opposto?

Val. La vostra follia.

Tur. E come osservate la mia follia?

Val. L’osservo nel vostro giubbone.

Tur. Il mio giubbone è da uomo posato.

Val. E rende più vivo il contrasto della vostra insensatezza.

Tur. Come?

Sil. Siete in collera, messer Turio? Cangiate colore.

Val. Lasciatelo fare, signora; egli è una specie di camaleonte.

Tur. Che ha molta più volontà di nutrirsi del vostro sangue, che della vostra aria.

Val. È detto, signore.

Tur. E sarà anche fatto.

Val. Lo so bene che voi avete sempre fatto prima di cominciare.

Sil. Un’arguta salva di parole, signori, e assai bene vibrata.

Val. È vero, madonna; e ne ringraziamo la causa.

Sil. Qual fu essa?

Val. Voi medesima, amabile donzella; perocchè voi apprestaste il fuoco. Messer Turio prende a prestito il suo spirito dai vostri vezzosi sguardi, e epende gentilmente quel ch’egli assorbe in vostra compagnia.