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ATTO SECONDO | 155 |
Val. Si veggono elle tutte queste cose in me?
Sp. Si veggono al di fuori di voi.
Val. Al di fuori di me? Non può essere.
Sp. Sì, al di fuori di voi, nulla è più vero; perocchè voi siete così fuorì di voi che nulla vi rimane all’interno. Le vostre follie veggonsi traverso al vostro corpo come l’urina in un pitale; talchè nessun occhio può guardarvi senza divenir tosto un abile medico, e indovinare la vostra malattia.
Val. Ma dimmi, conosci tu la mia Silvia?
Sp. Quella su cui fermate sempre gli occhi durante la cena?
Val. Hai tu notato ciò? Sì, quella.
Sp. Ebbene, signore, non la conosco.
Val. La osservasti pel mio guardarla, e non la conosci?
Sp. Non è ella una fanciulla rozza, signore?
Val. Gentile, più che bella.
Sp. Questo io ben sapeva.
Val. Che cosa?
Sp. Che non è tanto bella quanto gentile per voi.
Val. Intendo che la sua bellezza è eccelsa e la sua bontà infinita.
Sp. È perchè l’una è dipinta, e l’altra non si può misurare.
Val. Che vuoi tu dire?
Sp. Ch’ella si è tanto studiata di parer bella, che ha imparata la lezione a memoria.
Val. E che cosa giudichi di me che la reputo divina?
Sp. Voi non l’avete mai veduta dacchè divenne brutta.
Val. Da quanto tempo è ch’è divenuta brutta?
Sp. Dacchè l’amate.
Val. Io l’ho amata dacchè l’ho veduta, e l’ho veduta sempre bella.
Sp. Se l’amate non potete vederla.
Val. Perchè?
Sp. Perchè l’amore è cieco. Oh se aveste i miei occhi; o se i vostri avessero la luce che solevano avere quando rampognavano Proteo per la sua cecità...
Val. Che cosa vedrei?
Sp. La vostra presente follìa, e la sua poca bellezza: perocchè quegli che ama non ci vede neppur tanto da allacciarsi le calze, e voi amando, siete sepolto in dense tenebre.
Val. Tu pure dunque ancora sei innamorato, perocchè ieri mattina non fosti da tanto da affibiarmi le scarpe.
Sp. È vero, signore; ero innamorato del mio letto: vi ringrazio