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ATTO QUINTO
SCENA I.
Dinanzi alla casa di Leonato.
Entrano Leonato e Antonio
Ant. Se conducete lungo tempo tal vita, vi darete da voi stesso la morte: savio non è l’abbandonarsi così in preda al dolore.
Leon. Per carità! cessate; di niun giovamento mi sono le vostre consolazioni. Se volete che ascolti un consolatore, indicatemi un uomo i cui mali eguaglino i miei. Mostratemi un padre che abbia tanto amata sua figlia, e di cui la gioia ch’egli per lei provava sia stata annientata come la mia; e ditegli di parlarmi di pazienza. Misurate la profondità e l’estensione del suo dolore dal mio. I suoi dispiaceri corrispondano ai miei dispiaceri, il suo dolore sia in tutto simile a quello che mi strugge; e se un tal padre acconsente sorridere, e scuotendo la sua grìgia barba, grida: malinconia! va lungi da me; se un padre si trova che metter voglia un grido di gioia, allorchè deve singhiozzare; se dare la sua afflizione con antichi adagi; inebbriare il sentimento dei suo infortunio fra notturni bevitori; da un uomo siffatto mi lascierò consigliare la pazienza. Ma un tal uomo, fratello, non si trova. Gli uomini possono ben dare consigli e conforti al dolore che non sentono; ma se ne provano una sola volta l’amarezza, quei medesimi che pretendevano fornire un rimedio di precetti alla rabbia, incatenare il frenetico con un filo di seta, sperdereil male con vani suoni, e le ansie d’un cuore trambasciato con inutili detti, sono i primi a mutare i loro consigli in impreca zioni di furore. No, no, è mestiere degli uomini il parlar di pazienza a coloro la di cui anima geme sotto il peso del dolore; ma non è in potere dell’uomo l’applicare a se stessi siffatta monde, quando e’ vanno curvi sotto il fardello della sventura. Astenetevi dunque da questi inutili consigli; i miei mali gridanocon voce più alta dei vostri precetti.
Ant. Così ne verrebbe che gli uomini non differiscono in nulla dai fanciulli.
Leon. Non più discorsi, ve ne prego; io sono e sarò sempre di carne e sangue. Non vi fu mai filosofo che potesse con pazienza