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ATTO TERZO | 275 |
genti; retta da sozzi re, e sepolta quasi nell’abisso profondo della vergogna e dell’obblio. É per ritrarla da tale abisso che veniamo a scongiurarvi con tutto il cuore di assumere il peso e il governo di questa terra, vostra patria. Non è un protettore, un reggente, un luogotenente, che vi chiediamo, agenti subalterni, che da schiavi s’adoprano in profitto di un altro: ma vogliamo vedere in voi l’erede che ha ricevuto di generazione in generazione i dritti successivi ad un impero che vi spetta. Ecco, signore, il nostro movente; ecco la giustizia che vengo ad impetrare da Vostra Altezza insieme con questi fedeli cittadini, e i vostri amici più teneri e più affettuosi: io sono qui l’interprete dei loro voti e delle loro ardenti preghiere.
Gloc. Io mi sto incerto fra il ritirarmi in silenzio, o il rispondervi con amari rimproveri. La prima cosa non si addirebbe al mio grado: la seconda offenderebbe i vostri sentimenti. Perocchè s’io mi ritiro senza rispondervi, potreste forse imaginare che lo facessi per muta ambizione, e che volentieroso fossi di portare il giogo dorato della sovranità che vorreste follemente qui impormi. Se poi vi rimproverassi con asprezza le vostre offerte che vestono il carattere di sì ardente affetto, io lederei i miei generosi amici. Per appagarvi dunque, evitando il primo sospetto, e per non cadere nel secondo sconcio, questa sarà la mia risposta. Il vostro amore è degno de’ miei ringraziamenti: ma il mio merito, che non è di alcun prezzo, mi ammonisce di essere inadeguato alla proposta che mi fate. Anzi tutto, quand’anche ogni ostacolo fosse tolto, e i miei passi mi conducessero direttamente al trono, come al giusto retaggio che mi spetta; tale è la povertà dei miei talenti e la moltitudine delle mie imperfezioni, non essendo io che una fragile barca inetta a reggere agli impeti di così vasto mare, che preferirei di togliermi le grandezze, piuttosto che correr rischio di dover imprecare allo splendore della mia gloria e di essere soffocato dall’incenso del trono. Ma, grazie al Cielo, lo Stato non ha alcun bisogno di me; e se qualche bisogno avesse, io non sarei tale da soccorrerlo; il ramo reale ne ha lasciato un frutto che, fatto maturo a poco a poco dagli anni, diverrà degno della maestà del trono, e ci renderà tutti felici sotto il suo regno. È a lui ch’io lascio il peso che vorreste mi assumessi; ei deve portarlo per dritti più immediati dei miei, e per stella più fortunata. — Dio mi preservi dal volergliene rapire con alcuna violenza!
Buck. Milord, tutto nella vostra risposta prova la delicatezza della vostra coscienza: ma tali scrupoli son frivoli, e debbono