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NOTA

«II re Enrico V è manifestamente l’eroe prediletto di Shakspeare: ei lo adorna di tutte le virtù dei re e dei cavalieri; lo mostra prode, sincero, cortese, e, in mezzo alle sue luminose geste, sempre inchinato a quella innocente malizia che rammenta la sua gioventù. Non era facile il mettere sulla scena l’istoria della vita di questo principe dopo ch’egli ascese al trono. Le sue conquiste in Francia sono il solo avvenimento memorabile del suo regno, e la guerra è piuttosto il subbietto dell’epopeia, che della poesia drammatica. Allorché gli uomini operano in massa gli uni contro gli altri, non si può fare che il caso sembri aver parte nel successo dei loro sforzi, mentre il dramma deve solamente offrirci gli effetti che nascono, per una specie di necessità, dalle reciproche relazioni dei personaggi, dai loro caratteri e dalle loro passioni. Tuttavia se già si trovano in alcune tragedie greche e battaglie e combattimenti (o vogliam dire i loro apparecchi e le loro conseguenze), molto meno ancora si può escludere da un dramma istorico l’ultima ragione dei re, la guerra. Acciocché però non nuoca all’interesse drammatico, bisogna che sia puramente il mezzo di conseguire un altro fine, e non l’oggetto principale o l’argomento del dramma. Così per esempio le battaglie, di che si parla al principio del Macbeth, servono a far risaltare la gloria dell’eroe e ad infiammare la sua ambizione, ed i combattimenti ond’è testimonio lo spettatore, presso allo scioglimento traggono seco la caduta del tiranno. Il medesimo si dica dei drammi tolti dalla storia romana, e dalla storia d’Inghilterra, e di tutti quei soggetti insomma in cui Shakspeare unì la guerra al nodo drammatico. Profondissimo è il suo divisamento di non dipingere la sorte dell’armi qual cieca divinità che favorisce a capriccio l’una o l’altra fazione. Senza discendere in particolari puramente soldateschi, a cui nondimeno alcuna volta egli pon mano, il poeta fa procedere l’avvenimento dalle qualità dei capitani e dall’autorità loro sull’animo dei soldati. Talora egli presenta l’esito d’una pugna come un decreto del Cielo, e tuttavia non isforza mai la nostra credulità. La coscienza della giustizia della sua causa e della celeste protezione rende intrepido uno dei capi, laddove il presentimento della maledizione che accompagna un’impresa colpevole, abbatte il coraggio del suo avversario1. Non era

  1. Eschilo colla medesima saggezza, nella sua tragedia tutta guerresca Dei Sette a Tebe, diede ai duci tebani previdenza, risolutezza, coraggio, ed ai loro avversarii una temerità orgogliosa. Laonde rimane sempre il vantaggio a’ primi fino al combattimento di Eteocle e di Polinice, il cui esito, funesto ad entrambi, è pur effetto del delirio in che li getta la paterna maledizione. Ma l’esempio di quel gran maestro era sconosciuto a Shakspeare, nè certo egli abbisognava.