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ATTO SECONDO | 319 |
stre pianure l’Inglese, fatale alla Francia che lo ha troppo disprezzato.
Del. Mio augusto padre, conviene senza dubbio che ci armiamo contro il nemico. La pace stessa, quando la guerra fosse dubbiosa, e alcuna contesa non tenesse svegliati gli spiriti, la pace non dovrebbe mai immergere un regno in un sonno tanto profondo, da farlo astenere da tutti gli apparecchi che divengono necessari in guerra. È per questo principio, ch’io dico che bisogna che partiamo tutti per visitare le parti deboli di Francia; ma lo dobbiamo fare senza mostrar alcun sgomento. Noi possiamo essere così placidi, come se ci venisse detto che l’Inghilterra fosse in moto per una danza moresca; perocchè, mio rispettabile sovrano, quell’isola ha sul suo trono un re sì leggero, sì balzano e nullo, che non può ispirar alcun timore.
Con. Oh! non dite così, Delfino: troppo errate sul carattere di quel monarca. Interroghi Vostra Altezza gli ambasciatori tornati ora da Londra, ed essi vi dicano con qual maestà egli ha accolto il loro messaggio; da quanti savi consiglieri era attorniato; quanto modesto e discreto; ma in pari tempo come è temibile per la sua costanza, per le sue risoluzioni; e allora vi convincerete che le sue follie passate non erano che la maschera del romano Bruto che celava la prudenza sotto il pallio della follia.
Del. No, nobile contestabile, così non è: ma sebbene la vostra opinione non sia la nostra, essa pure ne giova. Allorchè si parla di difesa, il meglio è supporre il nemico più forte che non lo sembra; è questo un modo sicuro per provvedere alle proprie cose largamente. Un disegno angusto non soddisfa a tutti i bisogni; è come un avaro, che per ritenere un po’ di panno guasta un vestito.
Re. Vediamo in Enrico un nemico potente, e pensiamo a disporre di tutte le nostre forze per combatterlo. La sua schiatta s’è arricchita colle nostre spoglie, ed egli deriva da quella famiglia crudele che venne come notturno fantasma ad atterrirci fino in seno ai nostri focolari. Rammento il dì, troppo memorabile! di nostra vergogna, in cui i campi di Crecy furono testimonii di quella battaglia sì fatale alla Francia, quando tutti i nostri principi vennero incatenati dal braccio di quel potente Eduardo il Nero, che suo padre dalla gigantesca statura, stando sulla cima di una montagna, colla testa innalzata nelle regioni dell’aere, e coronata da un’aureola di sole, contemplava sorridendo, inebbriato dell’eroe che mutilava le opere di natura, e