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atto quarto 45


Art. Ah! ora riconosco in voi Uberto che prima si era trasfigurato.

Ub. Basta, non più; addio, addio! Bisogna che vostro zio vi creda morto. Vado a deludere le sue crudeli spie con un falso racconto. — Fanciullo, riposate, dormite nella maggiore sicurezza; siate certo che, per tutti i beni del mondo, Uberto non vi offenderà.

Art. Oh Cielo! — Io vi ringrazio, Uberto.

Ub. Silenzio; non più; rientrate con me: io incorro per voi gravi pericoli.     (escono)

SCENA II.

Una stanza nel palazzo del re.

Entra Giovanni coronato; Pembroke, Salisbury, ed altri Lordi. Il re va al suo seggio.

Gio. Eccomi di nuovo qui assiso, di nuovo coronato, e, spero, veduto con occhio giulivo e contento.

Pem. Vostra Maestà si è appagata, rinnovellando cotesta cerimonia. Ma era soverchia. Voi eravate stato coronato innanzi, e non mai spogliato poscia delle regie prerogative. Non mai alcuna ribellione avea macchiata la fede dei vostri sudditi. L’Inghilterra non anelava a verun cambiamento, e l’idea di una rivolta o di un miglior governo non avea turbata la sua tranquillità.

Sal. Fu dunque uno sfarzo inutile, una prodigalità intempestiva il ripetere senza bisogno tale formalità. Il vostro titolo era abbastanza bello, senza che cercaste di abbellirlo. Fu un voler dorar l’oro, pingere i gigli, profumar la viola, terger lo specchio, aggiunger colori all’iride, o aumentare lo splendore dell’astro del dì, col ministero di una torcia.

Pem. Se non fosse un dovere l’obbedire ai voleri di Vostra Maestà, cotest’atto non sarebbe stato migliore di un’antica novella narrata di nuovo: potrebbe anche forse essere stato pericoloso nelle nostre circostanze.

Sal. Fu una innovazione che corruppe la semplicità rispettabile delle forme antiche; e come turbine che infierisce entro una vela, diè ai pensieri commossi un corso errante e vagabondo; adombrò le menti, scuotè la stabilità delle opinioni ricevute, e rendendole incerte mostrò sospetta la stessa verità. Sì, novità tanto strana non potrà produrre che cattivi effetti.