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atto quinto 337


Mess. Incontrai per via un corriere, mio vecchio amico, e, quantunque fossero diverse le strade che seguivamo, spintivi dal nostro antico affetto, c’intrattenemmo a lungo per conversare. Ei veniva dal campo d’Alcibiade, con lettere per Timone che andava a ritrovare nella sua caverna. Alcibiade lo prega di unirsi a lui contro la vostra città, in una guerra in parte intrapresa, dice, per vendicarlo. (entrano i Senatori che andarono da Timone)

Sen. Ecco i nostri fratelli.

Sen. Non parlate più di Timone, nulla v’è più a sperare da lui. — Già i tamburi dei nemici si cominciano ad udire, e la loro marcia formidabile oscura l’aria con una nube di polvere. Rientiamo, e apprestiamoci: temo che la caccia non segua in pro de’ nostri nemici, e che noi non ne siamo la preda. (escono)

SCENA IV.

Il bosco. — La grotta di Timone e un monumento in distanza.

Entra un soldato cercando Timone.

Sold. A tenore della descrizione che me ne fu fatta, questo deve essere il luogo. V’ha alcuno costà? Olà! Favella. — Nessuno risponde. — A che accenna tal silenzio? — Ah! Timone è morto. Egli ha terminato il suo corso, e qualche fiera selvaggia è divenuta ereda della sua grotta. — Qui non v’ha uomo vivente: egli è certo estinto, e quella è la sua tomba. Ma che vegg’io su di essa? Non so leggere. — Rapirò questa iscrizione, applicandovi sopra la cera, e la porterò al generale; ei conosce tutti i caratteri: e, sebbene giovine d’anni ha la scienza dei vecchi. — Se cinse Atene di assedio, non fu che per vendicare quest’uomo: la morte di Timone è il termine dell’ambizione di Alcibiade. (esce)

SCENA V

Dinanzi alle mura di Atene.

Squillo di trombe. — Entra Alcibiade coll’esercito.

Alcib. La tromba annunzii a questa città effeminata e ai suoi vili abitanti il nostro terribile avvicinamento. (le trombe fanno la chiamata e i Senatori compariscono sulle mura) Finora avete