Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
318 | timone di atene |
dinanzi allo stolto vestito d’oro: tutto è subdolo e falso nell’uomo: nulla di vero nella nostra maledetta natura, se se ne eccettuino i vizi e la perversità. Anatema dunque alle feste, alle brigate e alle adunanze degli uomini. Timone odia e disprezza il suo simile: ei se stesso abborre, e fa voti perchè la distruzione annulli il genere umano. — Oh terra, cedimi qualche radice! (scavando) L’uomo che ti chiede di più, s’abbia da te i più atroci veleni! — Che è qui?... oro?... giallo, splendente, prezioso oro! No, Dei, io non innalzo inutili voti. Radici, e null’altro, o Cielo, ti chieggo!... E nullameno questa brillante polvere può far parer bianco ciò che è nero, render bello un mostro, innocente un colpevole, nobile un vile, giovine un canuto, e coronare la fronte del pusillanime cogli allori del generoso. — Oh perchè ciò, sommi Dei! perchè? — Sì, quest’oro può far disertare dai vostri altari i sacerdoti vostri e i vostri più zelanti servidori; ei può far strappare l’origliere, su di cui l’infermo ancora in vita appoggia il languido capo. Questo lucido e vil metallo stringe, o rompe i nodi più religiosi, santifica e fa benedire ciò che dovrebbe essere maledetto; fa adorare il più orrendo scheletro, e pone accanto al senatore, sul seggio della giustizia, un tristo, dandogli nobiltà, rispetto e pubblica ammirazione. È desso che terge le lagrime alla vedova sconsolata, e la dispone a nuovi giuramenti: esso che infiora e profuma la più fetida creatura, che putride infermità abbiano consumata, e la rende agli occhi altrui fresca come un’aura d’aprile. Vile idolo, a cui tutto l’uman genere si prostituisce, che spargi le sedizioni fra i popoli, vuo’ tosto rimetterti nel luogo che ti assegnò la natura. — (si ode da lontano una marcia) Ah! un tamburo? — Sei bene scorrevole e minuto, ma pur ti seppellirò: tu, il maggiore degli scellerati, andrai laddove i tuoi adoratori non possono prenderti. — Ma conserviamone una mostra. (tenendo un poco d’oro. Entra Alcibiade a suon di tamburo e di piffero, in arnese guerriero; Frine e Timandro lo seguono)
Alcib. Chi sei tu? Parla.
Tim. Una bestia uguale a te. La gangrena ti divori il cuore, poichè mi mostri ancora gli occhi di un uomo.
Alcib. Qual è il tuo nome? Può essere l’uomo così odiato da te, appartenendo tu alla sua specie?
Tim. Sono un misantropo, ed odio l’uman genere. Per parte tua, desidererei che tu fossi un cane, onde poterti in qualche modo amare.
Alcib. Ben ti conosco; ma ignoro le tue sventure.