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atto secondo 295


Sen. Vado, signore? E le obbligazioni non le prenderete con voi?

Caf. Così farò, signore.

Sen. Andate. (escono)

SCENA II.

La stessa. — Una sala nella casa di Timone.

Entra Flavio con molte polizze in mano.

Flav. Alcnn pensiero dell’avvenire! Alcun freno o limite! Ei non ha sentimento di sorta della sua prodigalità; talchè non potrà mai resistere all’impulso che lo spinge a dissipare. Non mai lo si vede turbato pel danaro che profonde; non pel pensiero del tempo che ciò potrà durare. La natura non aveva mai prodotto uomo così folle e in un sì buono! Or che fare? Ei non vorrà nulla udire intorno al suo stato, se gli avvenimenti non glielo chiariscono. — Convien ch’io gli parli liberamente quando tornerà dalla caccia. Oh qual vergogna, qual trista vergogna. (entrano Capi e i domestici di Isidoro e di Varrone)

Caf. Buona sera, Varrone1. Ebbene, venite a cercar danaro?

Var. Dom. Non è la stessa bisogna che vi conduce?

Caf. È; e la vostra ancora, Isidoro?

Isid. Dom. Non v’ingannate.

Caf. Volesse il cielo che fossimo tutti pagati!

Var. Dom. Ne temo.

Caf. S’avanza il signore. (entrano Timone, Alcibiade, e Nobili, ecc.)

Tim. Mio caro Alcibiade, appena finito il pranzo ci rimetteremo in via. — Da me? Che volete?

Caf. Signore, vi è una nota di certi debiti...

Tim. Debiti? Di dove siete voi?

Caf. Di Atene, signore.

Tim. Ite dal mio intendente.

Caf. Non vi spiaccia, signore, ei m’ha aggiornato sin qui i pagamenti: ora un bisogno pressante costringe il mio signore a chiedere il suo danaro; ei vi supplica di attendere a’ vostri sentimenti generosi, e di restituirgli quello che gli dovete.

Tim. Mio onesto amico, te ne prego, torna dimani mattina.

  1. Il poeta dà il nome dei padroni agli schiavi, che d’ordinario solevano valersene parlando fra di loro.