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atto primo | 287 |
SCENA II.
La stessa. — Una magnifica sala nel Palazzo di Timone.
Si ode un concerto di cornamuse. Un gran banchetto è imbandito. Flavio ed altri vi attendono; quindi entrano Timone, Alcibiade, Lucio, Lucullo, Sempronio, e certi suonatori ateniesi, con Ventidio, e seguito. Da ultimo, con aria rabbuffata si avanza lentamente Apemanto.
Vent. Onorando Timone, piacque agli Dei di chiamare la vecchiezza del mio genitore all’eterno suo riposo. Egli abbandonò la vita senza dolore, e mi ha lasciato ricco. Vengo oggi a soddisfare verso il vostro cuor generoso il debito di un cuor grato, e a restituirvi i cinque talenti, che mi riscattarono a libertà: ricevete con essi i miei ringraziamenti e il mio affetto.
Tim. Oh, nulla riceverò, onesto Ventidio; voi fate ingiuria alla mia amicizia: liberamente vi feci quel dono, e come si direbbe che si è donato se si permettesse la restituzione? Se i nostri signori supremi giuocano ad un tal giuoco, non si addice ai deboli mortali l’imitarli esigendo riconoscenza.
Vent. Nobilissimo spirito! (tutti guardano con ammirazione Timone)
Tim. Le cerimonie e i vani complimenti non furono inventati che per supplire all’insufficienza degli atti, per colorire le false dimostrazioni di un cuore che smentisce la propria bontà, e se ne pente prima ancora di averla esercitata: ma dove trovasi la vera amicizia, le formole riescono inutili. Vi prego, assidetevi; voi siete più preziosi alla mia fortuna ch’essa non lo è a me.
1° Nob. Signore, ne fummo convinti sempre.
Apem. Oh, oh, convinti? Perchè non poscia appiccati?1
Tim. Ah, Apemanto! Siete il ben venuto.
Apem. No, non dovete dirmi il ben venuto; vengo perchè mi si cacci fuori delle porte.
Tim. Vergogna, sei troppo selvaggio; hai preso modi che non si addicono all’uomo: ciò vuol biasimarsi. — Alcuni sostengono, miei signori, che ira furor brevis est: ma quest’uomo è sempre in collera. — Animo, gli s’imbandisca una mensa a parte. Ei non ama la compagnia, e non è fatto per lei.
- ↑ Allude al rei convinti.