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atto primo 281

immensa ricchezza, che il suo cuore nato benefico comparte a tutti, attira e incatena a lui tutti i cuori; da quello del vile adulatore, il di cui viso è uno specchio che riflette le sembianze del suo signore, fino a quel di Apemanto, che nulla più ama che di odiar se stesso, e che pur piega il ginocchio innanzi a lui, e se, ne ritorna felice e superbo d’un suo sguardo.

Pitt. Li ho veduti parlar insieme.

Poet. Io ho immaginato un trono eretto sulla cima di un’alta collina, e su di esso ho finto la Fortuna seduta. Il dosso del monte è coperto d’uomini d’ogni specie che intendono a superarlo, e si commuovono per ammigliorare la loro condizione. In mezzo a quell’immensa folla, i di cui occhi s’affiggono nella regina del monte, rappresento un personaggio sotto le sembianze di Timone, a cui la Dea, colla sua mano di alabastro, accenna di avanzarsi. Ei sale verso il di lei trono, ed essa lo fa ricco de’ suoi doni, e cangia tosto tutti i suoi emuli in servi sommessi, in ischiavi che si curvano dinanzi a lui.

Pitt. Parmi che un tal quadro lo potesse rendere assai bene anche la nostra arte.

Poet. Sia; ma lasciatemi proseguire. Quegli uomini prima suoi eguali, o anche suoi superiori, seguono ora i suoi passi trionfanti, empiono i suoi portici con corte numerosa, susurrano al suo orecchio le loro parole adulatrici, con lingua omicida calunniano l’onore de’ suoi avversarii, baciano le staffe che preme il fortunato suo piede, e non vivono che per lui.

Pitt. Questo è appunto: or che ne segue?

Poet. La Fortuna cangiando repentinamente d’umore, presa da novella fisima precipita dall’alto della montagna il favorito, poco prima a lei sì diletto, e tutti i suoi vasalli, che carpone sforzavansi di arrivare alla vetta dietro di lui, lo lasciano piombare di roccia in roccia senza che alcuno lo accompagni o lo arresti nella caduta.

Pitt. È quel che avviene. Potrei farvi vedere cento quadri che mostrano siffatte vicende con espressione ben più efficace delle parole. Nondimeno adoprate con senno e prudenza, facendo conoscere al nobile Timone come il povero, collocato alle falde del monte, abbia veduto mille volte precipitarne il potente colla testa all’ingiù e i piedi all’aria. (squillo di trombe; entra Timone con seguito; un servo di Ventidio parla con lui).

Tim. È imprigionato, voi dite?

Ser. Sì mio buon signore. Cinque talenti sono tutto il suo debito; ma or è privo di pecunia, e i suoi creditori sono inflessibili.