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atto quinto 211

di Roma, e che questa città superba che vede innanzi a sè peritarsi vasti e potenti regni, fatta simile ad un proscritto errante in abbandono, non rivolga sopra se medesima una vergognosa e terribile giustizia. Ma se questi segni di vecchiezza, se queste rughe profonde, gravi testimoni della mia lunga esperienza, non possono indurvi ad ascoltarmi, parlate voi, egregio amico di Roma. (a Lucio) Come un tempo un nostro illustre avo narrò con accento pietoso all’innamorata Didone la storia di quella notte di fiamme e di sciagure, in cui gli astuti Greci sorpresero la famosa Troia; ditene così voi del pari qual perfida sirena aveva ammaliato le nostre orecchie, e qual mano introdotto avea fra le nostre mura la fatal macchina, che danneggiò tanto profondamente questa seconda Troia, questa nostra Roma. Il mio cuore non è di roccia, nè di ferro, e non potrei fare il doloroso racconto de’ nostri mali, senza che torrenti di lagrime soffocassero la mia voce, e interrompessero il mio discorso, allorchè forse eccitasse meglio la vostra attenzione, e intenerisse di più i vostri cuori. Ma ecco un guerriero illustre che supplirà al mio difetto, e cui non potrete intendere senza gravi gemiti e dolori.

Luc. Sappiate dunque, nobili amici, che gli empi Chirone e Demetrio furono quelli che uccisero il fratello del vostro imperatore, che essi furono che disonorarono la sorella nostra, e che i nostri due germani furono decapitati pei delitti atroci di cui essi soli erano colpevoli. Sappiate che le lagrime di nostro padre vennero spregiate; e ch’ei fu colla frode più vile privato di quella mano che condotte avea le guerre di Roma, e precipitatine i nemici entro il sepolcro. Vi sia noto poi che io fui ingiustamente bandito, che le porte della mia patria furon chiuse dietro a me, e che mi vidi cacciato piangente lunge da questa terra, costretto a cercare un ricovero fra i nostri nemici, a cui le mie lagrime han tolto ogni odio, e che mi apersero le braccia; perocchè io era quell’esule, che mantenuta avea la sicurezza di Roma, a prezzo del mio sangue, e che fatto avea argine a lei col mio corpo. Oimè! voi ben conoscete ch’io non ho orgoglio; le mie ferite, quantunque mute, possono attestarvi che io parlo il vero. Ma fermiamoci, perocchè mi sembra che di troppo io devii, esponendo le mie lodi. Vogliate perdonarmi; chè gli uomini si esaltano da sè quando non hanno più amici.

Mar. Tocca ora a me il dire. Mirate quel fanciullo; (indicando il fanciullo che è portato da uno del seguito) Tamora ne fu madre; padre ne fu un empio Moro, autor primiero di tutti questi delitti. Lo scellerato è vivo nella casa di Tito; ed è là per