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atto quarto | 197 |
Tit. Ma che dice Giove, ti chieggo?
Il villico. Oimè! signore, io non conosco Giove, non bevvi mai seco in tutta la mia vita.
Tit. Come, scellerato, non sei tu un apportatore.....
Il villico. De’ miei piccioni, signore, e di null’altro.
Tit. Non venisti dal cielo?
Il villico. Dal cielo? Non vi fui mai: Dio mi preservi dall’essere tanto audace di voler ascendere in cielo così giovine. Io me ne andavo coi miei animaletti al tribunale della plebe, per acconciarvi una contesa fra mio zio e uno degli uomini imperiali.
Mar. Costui può assumersi la vosta arringa, signore. Ch’ei vada a consegnare i piccioni all’imperatore per parte vostra.
Tit. Dimmi, sapresti tu recitare un discorso all’imperatore con grazia?
Il villico. No veramente, signore; non seppi mai dir grazia in tutta la mia vita.
Tit. Via, appressati; non muover altre difficoltà: dà i tuoi piccioni all’imperatore. Col mezzo mio otterrai giustizia da lui. Fermati, fermati: ecco danaro pel tuo ufficio. Datemi una penna e un po’ d’inchiostro. Amico, sapresti consegnare una supplica?
Il villico. Sì, signore.
Tit. Ebbene; eccotene una. E quando sarai introdotto presso l’imperatore, ti prostrerai tosto, quindi gli bacierai i piedi, poi gli offrirai i tuoi piccioni, aspettandone la ricompensa. Io ti sarò accanto, amico; pensa a trarti con onore da tale incarico.
Il villico. Vi assicuro, signore, che lo farò.
Tit. Hai un coltello? Fa ch’io lo vegga. Marco, avvolgilo nell’arringa che trascrivesti col tuono di umile supplicante. E allorchè l’avrai data all’imperatore, torna da me per dirmi quello ch’ei t’avrà detto.
Il villico. Dio sia con voi, signore; così farò.
Tit. Vieni, Marco, partiamo; seguici, Publio. (escono)
SCENA IV.
La stessa. — Dinanzi al palazzo.
Entrano Saturnino, Tamora, Chirone, Demetrio ed altri; Saturnino tiene in mano le freccie che Tito ha lanciate.
Sat. Che dite voi, signori, di tale oltraggio? Fu mai visto alcun imperatore di Roma insultato, spregiato con tant’impudenza,