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atto quarto | 191 |
SCENA II.
La stessa. — Una stanza nel palazzo.
Chir. Demetrio, ecco il figlio di Lucio che ha qualche messaggio per noi.
Aar. Sì, qualche folle messaggio per parte del suo folle avolo.
Il fanciullo. Signori, con tutto l’umile rispetto ch’io posso esprimervi vi saluto per commissione di Andronico; (a parte) e prego gli Dei di Roma che vi esterminino entrambi.
Dem. Grazie, amabile Lucio; che v’è di nuovo?
Il fanciullo. (a parte) Che siete entrambi riconosciuti pei maggiori reprobi, tale è la nuova. — (ad alta voce) Col piacer vostro il mio avolo dopo savio consiglio vi manda col mio mezzo le sue più belle armi per consacrarle alla vostra illustre giovinezza, che è la speranza di Roma: così egli mi ha imposto di dire. Io faccio quello che egli mi ha prescritto, e vi presento questi doni, onde al bisogno siate ben difesi; quindi mi accomiato da voi; (a parte) empi traditori. (esce col seguace)
Dem. Che cosa sta qui? Una pergamena con suvvi scritto! Vediamo:
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Chir. Son versi d’Orazio: ben li rimembro, sebbene da gran tempo non li abbia letti.
Aar. È vero, son versi d’Orazio; vi apponete. — (a parte) Come stolti son costoro! Non è questa una beffa volgare; il vecchio ha scoperto il loro delitto, e manda loro queste armi con questi versi, che li feriscono al vivo senza che essi se ne avveggano. Se la nostra astuta imperatrice fosse alzata, ella applaudirebbe alla ingegnosa idea di Andronico: ma lasciamola riposare per qualche tempo sopra il suo letto di dolore. — (ad alta voce) Ebbene, miei giovani signori, non fu una fortunata stella quella che guidò in Roma, stranieri cattivi, per esservi innalzati a tanta grandezza! Molto godei nel disprezzare il tribuno dinanzi alla porta del palazzo e alla presenza stessa di suo fratello.
Dem. Ed io godo più ancora, veggendo un uomo sì illustre insinuarsi tanto bassamente nella nostra grazia e mandarne doni.